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Dall’istruttoria alla sentenza, la testimonianza del giudice Mario Fabbri sui fatti del Vajont

Mario Fabbri
Mario Fabbri

Un pezzo della nostra storia racchiusa in 500 pagine con tre anni e mezzo di indagini. Ovvero il fascicolo della sentenza di rinvio a giudizio depositata il 20 febbraio del 1968 dal dottor Mario Fabbri, all’epoca giovane giudice istruttore, che avviò il processo del Vajont.

Le ha raccontate lo stesso Fabbri, mercoledì sera alla pizzeria al Parco di Coi di Navasa (Limana), nel corso dell’incontro promosso da “Insieme per Limana”. «Dedico questa serata alle vittime e alla mia amica Tina Merlin» ha esordito il magistrato, già procuratore della Repubblica di Belluno nel ripercorrere i fatti dal suo osservatorio privilegiato.

«Fin dall’inizio l’intento fu quello di seppellire il Vajont dalla coscienza collettiva. Mi chiesero più volte di cedere il passo a magistrati più anziani per l’istruttoria. Fatelo con un provvedimento d’autorità, peraltro illegittimo – risposi – o non se ne discute. Contro il parere del pubblico ministero Mandarino consentii alla commissione parlamentare di visionare i documenti, episodio che annoverava un solo precedente risalente al 1910 per lo scandalo della Banca romana. Il Vajont rappresentava un grosso affare per la Sade, favorito anche dal processo di nazionalizzazione dell’energia elettrica che si andava delineando. Il notaio Da Borso, presidente della Provincia, definì la Sade “uno stato nello stato”. E ben presto me ne sarei reso conto».

Fabbri racconta delle renitenze del mondo accademico italiano, schierato con la Sade. Al punto che per trovare tecnici per le perizie dovette rivolgersi a professionisti all’estero. «Il solo eroe della II^ perizia fu Floriano Calvino, fratello di Italo, al quale chiusero la carriera universitaria». Guido Nottoli, giornalista dell’Unità”, al riguardo scrisse di “viltà accademica”. «Ho sempre avuto poca fiducia dei magistrati – ironizza Fabbri – e con l’astuzia del contadino marchigiano, nel redigere l’istruttoria mi dissi, se volete giudicare dovrete leggere queste pagine». Fabbri elenca il sovrapporsi di ostacoli burocratici e l’ostruzionismo che faceva rallentare le indagini. «Il mio nemico era la prescrizione del reato, 7 anni e mezzo. Ho sentito 2mila superstiti, tutti gli imputati, i periti, ricordo situazioni sgradevoli, come le ultime parole dell’ingegner Pancini prima del suicidio. Mi disse che se l’avessi rinviato a giudizio si sarebbe suicidato. Il provvedimento era un atto dovuto, essendo Pancini il direttore dei lavori per la costruzione della diga. Giovanni Leone, presidente del consiglio e futuro capo di Stato promise giustizia per i morti del Vajont, salvo poi difendere l’Enel. I bellunesi sopportarono anche questo! Leone era professore di diritto, avvocato, amabile persona, ma tutte erano amabili persone…»

«Se chi aveva il compito di sanzionare i comportamenti illeciti, gli abusi d’ufficio di tutti i galoppini l’avesse fatto, probabilmente ci saremmo risparmiati Tangentopoli». Il pubblico ministero Mandarino non emise nessun mandato di cattura. Io 3, fuggirono in 11, poi la Cassazione annullò il provvedimento e rientrarono. A due mesi dalla prescrizione, grazie a 750mila firme raccolte, si ottenne la celebrazione del processo in Cassazione».

Il 3 ottobre 1970 vennero riconosciuti colpevoli Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, condannati rispettivamente a sei e quattro anni e mezzo per frana, inondazione e omicidio colposo. Gli altri imputati vennero invece assolti. Fabbri ricorda tutte le irregolarità e le forzature della Sade.

«Avviarono il lavori della diga senza avvisare il genio civile. L’ingegnere che lo dirigeva s’infuriò e venne trasferito». Sullo spostamento a L’Aquila del processo per legittima suspicione Mario Fabbri dà un giudizio negativo «il caso cadde in mano al presidente del Tribunale Marcello Del Forno, poi radiato dalla Magistratura. Il motivo della richiesta di trasferimento del processo è dovuto alla previsione che l’appello si sarebbe dovuto celebrare poi a Venezia nelle cosiddetta “Corte dei Cini”» (Volpi, Cini, Gaggia, artefici della Sade. ndr)  . Fabbri conclude la sua testimonianza con due aneddoti e una riflessione.

«A processo concluso ricevetti una lettera per via gerarchica dal presidente della Corte d’Appello, che lesse la mia istruttoria, nella quale mi proponeva per un elogio solenne al Consiglio superiore della magistratura. Ingenuamente attesi quell’elogio. Dopo una decina d’anni, dopo che le carte del processo superarono l’esame contabile, in effetti ricevetti una lettera dal Consiglio superiore della magistratura. Ci siamo, mi dissi. Ma la lettera conteneva 120 addebiti a mio carico. Tutti infondati. Telefonai ad un magistrato del Consiglio superiore il quale mi disse che loro non c’entravano nulla, tutto proveniva dal gabinetto del ministero da un certo Zoli poi risultato appartenere alla loggia massonica deviata P2. Il procedimento si concluse con l’assoluzione mia e di Saracini».

L’altro aneddoto riguarda Tina Merlin «In tribunale, all’epoca, vigevano delle gerarchie di tipo militare o militaresco. Tina Merlin non saliva nemmeno perché non era gradita in quanto corrispondente dell’Unità. Ebbene, ci conoscemmo, entrambi avevamo avuto lutti in famiglia a causa della guerra, pretesi che come gli altri giornalisti del Gazzettino e del resto del Carlino anche lei accedesse al tribunale per raccogliere le sue informazioni».

«A 50 anni dal Vajont – ha concluso Fabbri – un risultato è stato ottenuto: Napolitano, Grasso e Letta hanno chiesto scusa. Un’altra cosa rispetto alla vicenda di Leone. Ma non basta – sottolinea il giudice Fabbri – i giovani devono difendere il patrimonio dei loro diritti, che sono l’aria, l’ambiente il lavoro. Diritti individuali e diffusi, noti attraverso la conoscenza storica». Un amaro riferimento al tessuto oramai logoro, dove si mettono in dubbio le sentenze definitive, lasciando così mano libera alla piazza, con le conseguenti spinte antidemocratiche.

Roberto De Nart

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