Invece di guardare al futuro insieme all’Europa, nel nostro paese sembra che la cosa più importante sia quella di eliminare le regole che salvaguardano la sicurezza dei cittadini, il diritto ad essere informati, la distribuzione e l’autonomia dei poteri, l’efficienza dello “stato sociale”, la dignità umana sul lavoro (art.41).
In questo ultimo caso è sintomatica la questione di Pomigliano L’industria mondiale dell’auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano – ben 15.000 se si conta l’indotto – sarà probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. Una volta riconosciuto che forse l’azienda non ha alternative, e sicuramente non ce l’hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, è necessario denunciare con forza che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime: esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle anche loro ai dipendenti. È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Romania, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce un certo numero di vetture l’anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, affermano i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Dal 1980 in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due obiettivi: il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati e i diritti del lavoro inesistenti, mascherando il tutto con gli spessi veli dell’ideologia neo-liberale. Il secondo scopo era quello di spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinché si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice, competitività (prof. Gallino). La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più timore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che devono, per senso di responsabilità, discendere al loro livello. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, sia per la persona che per le imprese: invece la nostra classe politica non trova di meglio che scagliarsi contro l’art. 41 della costituzione che pur legittimando la proprietà privata, la orienta giustamente verso “fini sociali” e ad essere funzionale ai fondamentali diritti della persona e delle comunità.
Francesco Masut
Circolo PD di Cavarzano