Dopo 50 anni di entrata in scena delle Regioni e di incompiuto decentramento amministrativo, nell’era post Covid, occorre un Presidente della Repubblica eletto direttamente e 12 Stati Federati, tra questi: Veneto-Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
La pandemia scoppiata causa Covid-19, ha provocato una profonda scossa in ogni settore della vita civile e produttiva. Le ripercussioni, una volta usciti dalla pestilenza, debbono spingerci a interrogarci e risolvere -tra gli altri – problemi da troppo decenni irrisolti. Il riferimento è alla debolezza cronica della “governance made in Italy” che – al dunque – presenta due problemi insoluti. Il primo. Il collo d’imbuto incardinato dalla e nella amministrazione statale primaria e secondaria, rimasta inalterata nei suoi architravi portanti, a 160 anni data dalla fondazione unitaria, centralista e di poco modificata al mutar dei regimi: monarchico, fascista e repubblicano. Il secondo. Una repubblica parlamentare sorta dopo la Seconda guerra mondiale e dalle ceneri della dittatura fascista, che negli ultimi 72 anni ha visto succedersi 67 esecutivi che, tranne in due casi, non hanno mai superato i 3 anni di vita. Una ripartizione dei poteri tra centro e periferia, dove i secondi sono sempre stati in posizione ancillare rispetto al dante causa. Infatti, e non a caso, le 16 regioni a statuto ordinario sono decollate dopo vent’anni di sonno profondo, tutto demerito dei partiti della cosiddetta prima repubblica. Realizzate nel 1970, per avere le materie previste in costituzione (prima versione, 1948 e seconda versione 2001), i neonati enti hanno impiegato decenni per avere ciò che loro spettava per legge. Più che fonti di autonomia, queste istituzioni, possono essere classificate sotto la voce “sportelli statali di spesa trasferita”, in assenza di una reale capacità di prelevare e godere del gettito fiscale localmente prodotto.
Dopo la serie B, la serie A è formata da 5 regioni e 2 province “speciali”, formatesi nel primo ventennio repubblicano per ragioni adesso del tutto superate. Tra l’altro, con la sottoscrizione dei patti di Maastricht (1992), non esiste più alcuna vera motivazione per dare di più a chi ha già avuto di più dallo stato italiano negli ultimi 50/70 anni. In materia la cosiddetta seconda repubblica ha semplicemente floppato in toto. Le “nuove“ classi dirigenti nazionali e regionali, sono state incapaci perfino di portare a termine a 20 anni data dall’incremento delle materie originarie, uno straccio “autonomia” più avanzata. Qualcheduno si ostina a chiamarla “autonomia rafforzata”, anche se trattasi di uno zombie che si trascina da un governo all’altro; patacca inutile visti i precedenti e del tutto superflua nell’epoca post Covid 19. Il commissariamento del Parlamento ed il “tutti dentro” (tranne la destra verace) nell’attuale esecutivo, per consentire a Mario Draghi di affrontare i due obiettivi affidatigli da Mattarella, uscire dalla pandemia e spendere bene in 6 anni gli oltre 200 miliardi targati UE (5 volte il piano Marshall della ricostruzione post-bellica) sono la conferma dell’insuccesso delle forze politiche scaturite dopo la caduta del muro di Berlino (1989). Infatti, a cadenza periodica, i rappresentanti del popolo vanno in panchina. Al loro posto subentra il banchiere/economista in auge al momento, chiamato dal Presidente della Repubblica di turno, per far aggiustare i conti o in grado di utilizzar bene le risorse pubbliche; dato che gli eletti non si sono rilevati all’altezza del compito. Così è successo con Ciampi (1993), a seguire con Dini (1995), Monti (2011) e Draghi (2021); una volta “fatta la quadra”, tutto torna come e peggio di prima.
Destino inevitabile? Chissà.
Di solito è proprio durante le crisi più pesanti, che si riprogetta la casa dalle fondamenta. In altri termini, l’organizzazione e l’esercizio delle funzioni pubbliche vanno riviste ora. Il modello statuale imperante dall’unità d’Italia è di matrice sabaudo-cavouriana, va sostituito con quello federale, ispirato alle idee fondative di Carlo Cattaneo (fine XIX secolo) che prefigurava uno Stato Italiano Federale da transitare verso un’Europa Federale. La relazione centro-periferia, ovvero Stato -Regioni, va radicalmente innovato, non svuotando uno dei due o tutte e due i poli, ma irrobustendo entrambi i fulcri del potere costituito. In sintesi, a capo della Repubblica Federale va eletto, a suffragio diretto, un Presidente privilegiando lo schema “semipresidenziale”, con i rappresentanti del popolo votati (preferibilmente) a scrutinio maggioritario e a doppio turno per ciascun collegio uninominale o comunque, in ogni caso, attribuendo tanti seggi in più quanto basta alla coalizione che ha raccolto più consensi, per essere autosufficiente in Parlamento. La sera delle consultazioni, si deve conoscere chi ha vinto e chi ha perso.
I meccanismi già vigenti, Sindaco (1993) e Presidente di Regione (1995) hanno consentito – da decenni – l’elezione diretta dei capi delle rispettive amministrazioni locali ed hanno garantito alle popolazioni interessate guide di durata quinquennale, (tranne pochi ed irrilevanti casi) a confronto dell’anno e mezzo medio di una compagine ministeriale governativa. La stabilità nel tempo, del comando e del comandante in capo, è una variabile non sufficiente per assicurare la qualità dell’azione svolta, ma sicuramente necessaria per garantire qualche risultato apprezzabile.
Di fronte ad un centro fortificato, i federati ovvero le regioni vanno riaggregate su base territoriale/economica/culturale ampia nei termini già identificati dallo studio della Fondazione “G. Agnelli” del 1992 che ne prevedeva al massimo 12. Il Nord-Est nel nostro caso. Anche in questo contesto, va confermato il maggioritario come dato per designare i rappresentanti, stabilendo il rapporto di un consigliere ogni cento mila abitanti. Le competenze attribuite sono quelle della regione “speciale” più ricca di funzioni devolute, la Sicilia. Il gettito fiscale raccolto va trattenuto nella maxi-regione per il 60%. Nei paesi federali la quota parte di apporto economico versato al centro è al massimo del 25%. Accidentalmente, l’Italia dopo 160 anni di stato unitario è ancora fortemente diseguale tra Nord e Sud, quindi è opportuno che il 40% sia devoluto alle casse centrali per le necessità di riequilibrio territoriale e di mantenimento dei servizi essenziali a valere per tutti: giustizia, esteri, interni, scuola, sanità, trasporti, digitale.
La presenza sempre più tangibile dell’Unione Europea, l’entrata in campo della moneta unica da 20 anni e la crisi pandemica tuttora in corso, nei fatti oltre che nei trattati, sono -sempre di più- il nostro orizzonte prossimo futuro. Per uno scherzo del destino, oggi siedono fianco a fianco a Roma per affrontare i colossali problemi irrisolti da tempo immemore e i convinti europeisti e chi, fino a ieri, faceva parte dei No-Euro, mera casualità?
Rivedere la Costituzione vigente sull’assetto e sul funzionamento delle istituzioni rappresentative, non dovrebbe essere più un tabù improponibile. Del resto, o il tema è oggetto di decisione appropriata se non ora quando? O viceversa ed inevitabilmente, diventerà spot da campagna elettorale ad uso esclusivo del centro destra prossimamente; 2022 o 2023.
Per capire lo stallo regionalista anche dopo l’inutilità e lo spreco di milioni di euro da parte della Regione del Veneto con il referendum farlocco del 2017, a tutt’oggi sterile di risultati, può essere d’aiuto leggere:
15 marzo 2021 Enzo De Biasi