Se è vero che i cavalli di razza si vedono alla partenza, non può sfuggire l’impresa a soli 10 anni, nel 1931, di un ragazzino che pedala per 400 chilometri in bicicletta per le strade delle Dolomiti, perché volle assolutamente seguire il padre in un lungo tour con amici. E’ la storia straordinaria del tenente generale della Polizia di Stato Lorenzo Cappello, già comandante della Scuola Alpina di Moena, che tra un paio di mesi festeggerà il suo traguardo dei 100 anni. E’ un fiume in piena quando racconta la storia della sua vita il generale, che in occasione delle recenti Olimpiadi invernali di Cortina 2021 è ritornato sulle pagine dei giornali perché ai Giochi del 1956, era lui come tedoforo a consegnare la fiaccola olimpica a Zeno Colò.
“Sono nato il 30 maggio del 1921 a Trichiana, nel Municipio, che allora era la casa di mio padre Cesare, segretario comunale. A tre anni e mezzo in carrozzina a piedi mi portarono a Mel, dove mio padre aveva vinto il posto di segretario comunale e dove anni dopo diventerà sindaco. Ricordo quel giorno, quando arrivammo a Mel, in una piazza affollata, con i cavalli del carro funebre, per il funerale di mio nonno Lorenzo Cappello, proprietario dell’omonimo ristorante a Mel. Negli anni delle scuole elementari sono cresciuto in casa della nonna Adelaide, che mi trattava come un principe. A casa, invece, mio padre era molto severo. Quando terminai il liceo classico del collegio Pio X di Treviso, mentre i miei compagni di classe festeggiarono il diploma con regali e viaggi all’estero, io andai nell’ufficio di mio padre per dargli la buona notizia, dicendogli che volevo iscrivermi alla Facoltà di Chimica all’università di Padova. Ebbene, ricordo d’essere uscito dalla stanza senza aver ricevuto nemmeno un cioccolatino per la mia promozione! A Padova eravamo partiti in 95 iscritti a Chimica, ma gli esami erano difficili e in 90 passarono a Farmacia. Nel febbraio del 1941 devo interrompere gli studi per il servizio militare. Parto per Aosta, alla Scuola militare alpina, per diventare ufficiale. Dopo quattro mesi di corso sono al Battaglione Feltre come sottufficiale, poi ad Avellino e quindi assegnato all’11mo Reggimento alpini di Trento come sottotenente di prima nomina, poi destinato alla Scuola di sci di Corvara come istruttore”.
Sono molti gli aneddoti che il generale Cappello ricorda. Come la salita con cinque alpini a Becca di Nona, la montagna a ridosso di Aosta, dove si fece notare per le sue doti di alpinista sciatore, ricevendo i complimenti del colonnello comandante. Oppure la sua partecipazione a Cortina, alla gara di lancio del disco, scelto dal segretario del fascio a rappresentare Belluno. “Il primo classificato lanciò a 34 metri, io arrivai secondo a 32 metri, che mi valsero l’accesso alle selezioni regionali. Ma mio padre me lo vietò, perché disse che dovevo studiare”.
Intanto la II Guerra mondiale diventava più lunga e cruenta, abbattendo l’illusione di Mussolini, abbagliato dall’efficienza della Whermacht che in un mese occupa la Polonia e nel giugno del ’40 è già a Parigi, che riteneva di andare ad incassare il bottino di guerra seduto al tavolo dei vincitori a fianco del suo alleato Hitler. Capello ha il fratello farmacista Guglielmo, militare nella Campagna di Russia che non vede da più di un anno e decide di raggiungerlo. “Nel 1942 andai al comando di Trento e chiesi di potere andare in Russia – racconta il generale – ma nel sorteggio, benché vi fossero molte probabilità per la Russia, mi toccò il Montenegro”. Il fratello Guglielmo perderà la vita nella Campagna di Russia, mentre Lorenzo, con il grado di sottotenente, avrà il suo battesimo di fuoco durante il trasferimento in treno da Visegrad a Pljevlja in Montenegro. Il treno si ferma, sotto una serie di colpi. “Io rimasi nel vagone, illeso, fino a quando cessò il fuoco”. Nei ricordi del generale c’è spazio anche per qualche aneddoto divertente. “Qualche giorno prima, mentre passeggiavo con dei commilitoni a Belgrado, poiché conoscevo un po’ la lingua slava, ho avvicinato una ragazza con il pretesto di chiedere alcune informazioni. ‘E’ la prima volta che sento un italiano parlare slavo’ mi rispose. Era italiana, lavorava alla mensa ufficiali. In Montenegro mi assegnarono una postazione su un colle vicino a Pljevlja, ma quando arrivai a 150 metri dal distaccamento con i miei alpini, sentiamo uno sparo. Arriva la notizia di uno scontro a fuoco al generale Esposito, che farà intervenire l’artiglieria, salvo poi apprendere che si era trattato di un colpo esploso per errore da un alpino. Durante la mia permanenza in Montenegro, avviene il ferimento di un cavallo, che era quindi destinato a essere soppresso. Era un bellissimo esemplare, e mi dispiaceva venisse abbattuto. Così mi offrii di curarlo personalmente, insieme al veterinario. L’animale guarì, e quando arrivò l’ordine di partire per il fronte francese lo portai con me in treno fino a Torino, dove fui costretto a lasciarlo nelle scuderie della caserma. La mia nuova destinazione era Modane, nel dipartimento della Savoia, a pochi chilometri dal confine italiano. Poiché conoscevo il francese, mi assegnarono la mansione di interprete per i rapporti con le autorità francesi. Arriva l’armistizio dell’8 settembre del ’43, e il re disse che per noi la guerra era finita. Siamo catturati dai tedeschi che ci dichiarano prigionieri e ci fanno sfilare per un giorno intero per le vie di Grenoble. Otto alpini tentano la fuga e sono fucilati. Io riesco a fuggire sfondando il tetto delle scuderie della caserma dove eravamo prigionieri e raggiungo una segheria dove il titolare mi procura degli abiti borghesi e mi fa uscire dalla città nascosto in un autocarro. Per una settimana rimango nascosto in un fienile di un contadino nei dintorni di Grenoble. Qui conosco una ragazza, che un giorno arriva con una macchina fotografica e tramite la resistenza ebraica che si era costituita contro i nazisti, mi fa avere una carta d’identità falsa. Per un anno e mezzo divento Jean Ralf Acquaviva, cittadino francese nato in Corsica. Ho fatto il boscaiolo e l’operaio in miniera a un pasto al giorno vestito di stracci”. Ma qui avviene un altro colpo di scena nella vita del generale Cappello. Nel 1943/44 per gli italiani a Grenoble la vita era per lo più tranquilla e gli ebrei potevano sottrarsi alle deportazioni grazie al sostegno delle autorità italiane. Così descrive la situazione Paul Giniewski nel libro “Une Résistence juive. Grenoble 1943-1945”. Cappello è un giovane ufficiale, parla francese, e partecipa alla vita di società. Siamo nel 1944. Ad una festa Cappello invita a ballare delle ragazze. “Avevo notato che c’era seduto al tavolo un uomo francese, alto di statura, circa 1 metro e 90, con la sua famiglia, la moglie e le tre figlie. Ma la sua presenza austera mi aveva intimorito e non avevo osato invitare a ballare le tre ragazze”. Il giorno seguente, però, questa sua “disattenzione” viene ripresa dai suoi superiori. Un piccolo incidente diplomatico insomma. “Non ci pensai due volte, per farmi perdonare, il giorno stesso mi presentai alla porta della famiglia francese con una cesta di rose. Nacque così una simpatia con Janine Monniere, così si chiamava una delle tre figlie, che poi diventerà mia moglie”. Ma la guerra li divide. Janine deve ritornare a Parigi, dove il padre è un noto antiquario, e anche Lorenzo Cappello deve rientrare con il suo reparto. Tutto avrebbe fatto intendere che i due giovani non si sarebbero più rivisti. Invece, come in un film a lieto fine, in una giornata durante i mesi di duro lavoro in miniera, un’auto lussuosa è in sosta fuori dalla miniera. Era Janine, che era tornata a Grenoble da Parigi per rivederlo. “A mezzogiorno finisce il turno di lavoro, esco insieme agli altri minatori, vedo l’auto e una ragazza, ma non ci riconosciamo. Quando arrivo in mensa mi dicono che fuori c’è una signora ricca con una grande macchina che mi sta aspettando. Esco, Janine mi dice che avrebbe parlato a suo padre per tornare insieme a Parigi. Organizziamo il viaggio in treno da Grenoble a Parigi. Nel tragitto, i tedeschi controllano i miei documenti falsi, ma non sospettano nulla. Mentre, ironia della sorte, sorgono dei problemi quando vedono il passaporto autentico di Janine, da dove risulta che aveva vissuto per 4 anni in Inghilterra, terra nemica della Germania. La circostanza risulta sospetta, Janine viene fermata e interrogata. Fortunatamente tutto si chiarisce e proseguiamo il viaggio. A Parigi, tramite lo zio, Janine mi trova sistemazione in una casa lussuosa, a 150 metri dall’Arco di Trionfo. Le stanze erano libere perché il proprietario, un gioielliere amico della famiglia Monniere, era fuggito negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste. Ricordo che la casa aveva una grande libreria con testi antichi dalle copertine in cuoio. Ero servito a tavola da un cameriere che mi portò alcune fette di prosciutto, che, dopo i mesi in miniera a un solo pasto giornaliero, avrei divorato per intero senza affettarlo. Ma, date le circostanze, mi trattenni, e dissi basta così grazie”. Rimasi ospite in quella casa per alcuni mesi, il tempo per organizzare il matrimonio che si sarebbe celebrato a San Philippe du Roule, una chiesa settecentesca di Parigi in stile neoclassico. Questa volta a creare problemi è la burocrazia. Il parroco per sposarci mi chiede i certificati di battesimo e cresima. Dico di essere corso e di non averli a disposizione. A sbloccare la situazione è ancora Janine, tramite lo zio, che si rivolge a un cardinale il quale darà le direttive al parroco secondo le quali sarebbe stato sufficiente che io prestassi giuramento con la mano sul vangelo, garantendo di aver ricevuto i sacramenti cristiani. E così avvenne. Alla cerimonia seguì il pranzo nel ristorante più elegante dei Campi Elisi (Avenue des Champs-Élysées), la strada che collega l’Arco di Trionfo a Piazza della Concordia. Un pranzo stupendo con soli cinque invitati tra cui lo zio di Janine, che mi procurò il lavoro come direttore di una fabbrica d’armi a 100 Km da Parigi. Qualche giorno dopo la cerimonia religiosa, andammo in Municipio per registrare il matrimonio civile. Ma con il deposito dei documenti, dopo alcuni giorni viene scoperta la mia falsa identità e siamo costretti alla fuga. Alla stazione di Parigi c’è la fila di persone in attesa di lasciare la capitale. Non possiamo aspettare, Janine si finge incinta, salta la fila, acquista due biglietti e saliamo sul treno per Grenoble dove avevo un amico italiano. Il treno è pieno di tedeschi, passiamo indenni sotto un bombardamento. Arrivati a destinazione, tramite l’amico italiano che conosce il sindaco del paese, mi viene offerto il lavoro di postino, dovevo coprire una zona di 32 Km. Ma un giorno un maresciallo francese mi dice di aver ricevuto una segnalazione che io ero italiano, e mi suggerisce di andare al Consolato dove stanno raccogliendo i fuoriusciti italiani per combattere a fianco degli Alleati. Aderisco all’iniziativa e in breve tempo riunisco circa 300 uomini. Un colonnello francese mi disse che potevo essere inquadrato nella Legione Straniera e così, in un mese, organizzo un battaglione di circa 700 uomini, metà italiani e metà italo-francesi. Rimango a Nizza per circa un mese in un albergo, come ufficiale francese, addetto militare. A guerra finita torno a Grenoble, da dove avrei dovuto organizzare il rientro in Italia di sette fuoriusciti italiani, perseguitati politici dal fascismo, tutti uomini che in seguito rivestiranno importanti ruoli istituzionali. Si torna a casa. Quando ho messo piede in Italia ho pianto. Ma non era ancora finita, perché quando siamo arrivati al distaccamento alleato di Torino veniamo arrestati tutti dai partigiani, che ci scambiano per stranieri. Io indossavo ancora l’uniforme da ufficiale francese, e tutti otto rischiamo la fucilazione. Ci portano in una caserma. Al mattino dopo fortunatamente, a risolvere la situazione, arriva un capo partigiano, era invalido, senza un braccio, è il maggiore Romiti che ordina la nostra immediata scarcerazione. I sette uomini che avevo portato con me vengono riconosciuti come autorevoli politici”. E’ in questa occasione, a Torino, che Cappello incontra un ufficiale di polizia che era stato suo ospite a Grenoble e che lo informa di un concorso nella polizia. Cappello vi partecipa e vince. “Da quel giorno, sono diventato ufficiale della Polizia di Stato. Con altri 80 colleghi ci fecero frequentare un corso all’Accademia di Polizia a Roma, dove ognuno doveva trattare un tema per poi esporlo in pubblico. Successivamente mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza a Torino.
Ho terminato la mia carriera in polizia dopo 42 anni di servizio, con il grado di Tenente Generale”. L’equivalente, per capirci, di generale di Divisione (greca e due stelle), al di sopra c’è solo il comandante generale della polizia, che nel vecchio ordinamento aveva il grado di generale di Corpo d’Armata (greca e tre stelle), corrispondente alla qualifica attuale di direttore generale della Pubblica sicurezza. Dal 1965 al 1974 Capello ha comandato la Scuola di alpinismo di Moena, e dal 1984 ha cessato il servizio. Negli anni ‘70 ha ricoperto l’incarico di Consigliere nazionale della Federazione italiana di sci e della Federghiaccio. Sua nel 1971 la creazione con altri tre amici della Marcialonga, la gara di granfondo di 70 Km da Moena a Cavalese. E nel 1973 della Pizolada, la gara di scialpinismo che si snoda per 18 Km in un dislivello di 1.850 metri sul passo San Pellegrino. Per quanto riguarda la vita privata, dal matrimonio con la signora Janine, che morì prematuramente prima d’aver compiuto 40 anni, nasceranno due figli. Poi, nel 1960 Lorenzo Cappello sposerà la signora Emmalina, dalla quale avrà altri due figli e con la quale tutt’oggi vive nella sua casa di Mel.
Roberto De Nart