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Bepi Zanfron, l’occhio bellunese del fotoreporter, orgoglioso di essere alpino

“Aveva una grande passione, quella degli alpini. In casa, il cappello alpino doveva sempre essere in vista”. Sono le parole di Antonietta De Nardo, moglie di Bepi Zanfron, fotoreporter bellunese che con il suo obiettivo ha fissato gli eventi dagli anni ’50 fino all’arrivo del digitale negli anni 2000.
Giuseppe Zanfron, per tutti Bepi, nasce nel 1932 a Villa di Villa (Mel). E’ il penultimo di sei fratelli. Gli ultimi anni di guerra li passa a Paludi d’Alpago, poi la sua famiglia si trasferisce a Visome. Sono gli anni in cui Bepi si dedica alla recitazione e l’agonismo. Pratica lo sci, la ginnastica artistica, partecipa a gare podistiche e ciclistiche. Con il Veloce club Belluno conquista uno dei 5 Giri del Piave.
Ma la passione per la fotografia, che diventerà poi la professione di una vita, nasce nel periodo in cui presta servizio militare come alpino al Battaglione Tolmezzo di Bassano del Grappa e poi come istruttore alla Compagnia reclute di Tolmezzo. E’ qui che Bepi acquista la sua prima macchina fotografica, una Koroll 2^ della Bencini, con i soldi ricevuti da casa perché si tenga su con il morale durante la naja. Ed è un colpo di fulmine. Quando si congeda, infatti, cerca e trova lavoro da Furlan, un anziano fotografo ritrattista con negozio a Belluno in viale Fantuzzi. Qui impara il lavoro e quando il titolare nel 1954 ritorna a a Oderzo, sua città di origine, Bepi allora 22enne ne rileva l’attività, aiutato dalla sorella minore Silvia che sta in negozio, mentre lui esce per i servizi fotografici. Si diploma in fotografia all’Istituto industriale statale “Galilei” di Milano. Frequenta corsi di specializzazione a Torino. Nel 1961 è fotoreporter per il Corriere della Sera e per il Gazzettino, e nel ’62 è corrispondente per il Nord Italia della Associated Press. Per la sua attività, professionalità e dedizione al racconto dei fatti, ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Impossibile elencarli tutti. E’ stato insignito dell’onorificienza di cavaliere ufficiale della Repubblica, nel 1999 gli viene assegnato il Premio San Martino Città di Belluno. Nel 2004 riceve il premio alla carriera dall’Ordine dei giornalisti, unico caso di riconoscimento attribuito a un collega fotografo pubblicista.

Se è vero che “Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento…” come sosteneva “l’occhio del secolo” ovvero Henri Cartier Bresson, uno dei fotografi più importanti del Novecento, io credo che Bepi Zanfron possa essere considerato a pieno titolo “l’occhio bellunese”. Con i suoi scatti, infatti, ha fissato le Olimpiadi di Cortina del 1956, le imprese alpinistiche degli anni ’60 nelle Dolomiti (Civetta, Tre Cime di Lavaredo, Agner), il Vajont nel 1963, l’alluvione del ’66, la stagione degli attentati in Alto Adige e Cima Vallona, il terremoto del Friuli del 1974, l’inizio della guerra nella ex Jugoslavia. Segue Papa Luciani nel suo breve pontificato e le visite di Giovanni Paolo II in tutti i suoi passaggi in provincia. I grandi eventi sportivi come le Olimpiadi invernali di Lillehammer (Norvegia 1994) e Albertville (Francia 1992). E’ stato, insomma, fotoreporter e testimone diretto della vita della provincia di Belluno dagli anni ’60 ad oggi.
Ma è nella catastrofe del Vajont del 9 ottobre del 1963, che l’obiettivo di Zanfron ritrae l’aghiacciante desolazione causata dall’onda che si è abbattuta nella piana di Longarone. All’epoca Bepi lavorava già per l’Associated press ed è tra i primi a raggiungere il luogo del disastro. “Chi ha visto sa – scriverà Zanfron nel suo libro curato da Sergio Sommacal, già capocronista della redazione del Gazzettino di Belluno – chi non c’era non può immaginare. Quella tremenda sensazione di camminare sui cadaveri”. Bepi quella notte continua a girare tra i resti di Longarone e Pirago. Le prime immagini sono scattate ancora col buio, poi alle prime luci dell’alba la catastrofe si rivela in tutta la sua terribile realtà.

Lo ricorda così la moglie Antonietta De Nardo. “Bepi, nell’ultimo periodo, quando oramai stava male, voleva fare un ultimo libro dedicato alla sua provincia. Voleva che le sue immagini della provincia di Belluno rimanessero. Lo rassicuravo dicendo di raccogliere le foto che poi ci avrebbe pensato Sergio Sommacal. La sua dedizione al lavoro è stata ampiamente ripagata dalle attestazioni di stima della gente che lo incontrava”.
La figlia Sara, che ha lavorato per quasi vent’anni a fianco a lui come fotografa ricorda: “Rimasi subito affascinata dalla professione, perché il contatto con le persone e l’espressione artistica della fotografia incarnavano la passione che avevo sin da piccola, la pittura. Per procacciarsi i primi clienti mio padre si spostava con la sua amata bicicletta per le case e colorava a mano le fotografie sbiadite in bianco e nero, promettendo di renderle vive e splendenti. Con il suo carattere disponibile e allegro, convinceva le persone, quasi potesse regalare loro un sogno. E io credo che talvolta glielo regalasse davvero. I suoi scatti erano unici, d’effetto, poetici, dolci e crudi allo stesso tempo. All’inizio rimasi esterefatta dal suo modo di lavorare, caotico e disordinato, nonostante ciò riusciva, quasi miracolosamente a svolgere il suo lavoro completo. Quella volta che a un matrimonio arrivò in ritardo, appena prima che gli sposi si scambiassero gli anelli, riuscì in maniera roccambolesca a scattare quei momenti importanti e ricreare dopo, quelli perduti dell’entrata in Chiesa, come un regista a teatro, dirigendo gli sposi come fossero attori. Mi spiegava che in qualsiasi cerimonia occorreva essere sempre composti, rispettosi, eleganti e cortesi. Questo stile l’ho messo in pratica nella vita di tutti i giorni”.
“Era sempre pronto a salire in macchina per un nuovo servizio – ricorda il figlio Luca oggi titolare dell’agenzia fotografica, che ha iniziato nel 1984, a 14 anni, in camera oscura con lo sviluppo del bianco e nero e poi del colore -. Mio padre nasce con la pellicola e muore con la pellicola. Non si è mai occupato di foto digitali e computer. Anche dopo la malattia, negli ultimi 8-9 anni (muore a 84 anni nel febbraio del 2017) ha continuato a scattare le sue foto con la pellicola. Arrivava alla sera in negozio con molti rullini e si preoccupava che io glieli sviluppassi”.
Ennio Pavei, ha lavorato un decennio dal 1965 al 1975 al suo fianco. “Ho iniziato a 14 anni come garzone, il mio compito era quello di asciugare le foto nel laboratorio di via Fantuzzi. Quando ho compiuto 16 anni Zanfron ha subito regolarizzato il mio rapporto di lavoro. Io usavo una Minolta 6×6, Bepi la Rolleiflex 6×6 e poi la Hasselblad. Le pellicole formato 6×6 avevano 12 pose quindi era fondamentale calcolare gli scatti in modo da averne a disposizione al momento clou della cerimonia. Io cercavo di risparmiare scatti, Bepi invece scattava sequenze di immagini come si fa oggi con il digitale, come se volesse fermare il tempo”.
Romeo Da Riz inizia nel 1966/67, ha lavorato 25 anni con Zanfron, fino al 2001 con il passaggio dalla pellicola al digitale. Anche lui parla di una “euforia dello scatto” di Bepi fotoreporter. “Per un servizio matrimoniale normalmente mi bastavano 7-8 rullini da 12 pose, mentre Bepi ne utilizzava una ventina”.
Eleonora Emmi ha iniziato nel 2007 a 18 anni nello studio fotografico di Bepi Zanfron dove lavora tutt’oggi. “Ricordo che aveva una gran voglia di raccontare. Lo aveva sempre fatto attraverso le sue fotografie, nell’ultimo periodo lo faceva con le persone vicine. Mi portava nell’archivio fotografico di via Psaro, aveva un buon passo e una buona memoria, perché ricordava di ogni immagine luoghi e circostanze”.

(rdn)

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