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Foibe, Il giorno del ricordo, e l’antefatto

“La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra…” recità così la Legge n.92 del 30 marzo 2004.  Ma quante e chi furono le vittime delle foibe? E quanti i profughi? Difficile stabilirlo con esattezza. Alcune stime parlano di 600-700 vittime per il 1943 e di più di 10 mila arrestati, di cui alcune migliaia non fecero più ritorno. Altre stime, che sostengono la tesi del genocidio etnico degli italiani della Venezia Giulia, parlano di più di 10 mila morti, comprese le vittime italiane degli scontri con i partigiani jugoslavi. Erano italiani di ogni estrazione, civili, militari, carabinieri, finanzieri, agenti di polizia e di custodia carceraria, fascisti e antifascisti, membri del Cln Comitato di liberazione nazionale, quali oppositori di Tito. Ma furono infoibati anche tedeschi vivi e morti, e sloveni anticomunisti. E poi ci sono i profughi, il martirio di 350 mila italiani costretti ad abbandonare tutti i loro beni e le loro terre, passate alla Jugoslavia, solo perché erano italiani. Un contenzioso che dura da 60 anni e che l’Italia ha sanato restituendo solo il 15% di ciò che il regime di Tito strappò agli esuli. Oltre ai fatti raccapriccianti contro la popolazione innocente, che a leggerli c’è da rabbrividire. Racconta Renato Garibbo su Diario triestino: il 20 settembre 1943 ad Antiganana, viene rapita da 16 titini la studentessa Norma Cossetto. Violentata, torturata (le verranno recisi i seni a coltellate e infilzato un paletto nella vagina) e scaraventata in una foiba. Gli aguzzini vengono catturati dai tedeschi e dagli italiani della Decima Mas, che prima di ucciderli con una raffica di mitragliatrice li imprigionano per una notte in una chiesetta insieme al cadavere putrefatto della ragazza. Tre impazziranno.
Italiani brava gente e vittime incolpevoli?
No davvero. Perché la verità, ha sempre due facce. Cominciamo dal 1920. Ecco cosa disse Benito Mussolini: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.
Il 3 aprile del ‘41 il colonnello croato Kren dell’esercito serbo fornisce ai nazisti tutte le informazioni sulle forze e la dislocazione dell’esercito jugoslavo. Il 6 aprile, 24  divisioni tedesche, 23 italiane attaccano la Jugoslavia. Preceduti dall’azione di 2.200 aerei che distruggono l’aviazione jugoslava e bombardano Belgrado. In due giorni ci sono 17.000 morti jugoslavi, 558 tedeschi e 3.334 italiani. La Jugoslavia viene spartita tra gli eserciti occupanti. All’Italia spetta l’intera costa dalmata, parte del Montenegro, quasi l’intera Slovenia e la Croazia sotto forma di protettorato. La Slovenia viene annessa, e diventa la provincia di Lubiana. La Croazia diventa un regno “indipendente”, con primo ministro Ante Pavelic, un feroce sanguinario amico di Mussolini. E re, Aimone di Aosta cugino di Vittorio Emanuele III. Comincia così la pulizia etnica nei confronti dei serbi e delle minoranze etniche da parte del Partito fascista croato, gli Ustascia, formato da fanatici religiosi cattolici e nazionalisti, appoggiati dal vescovo di Zagabria e primate di Croazia Stepinac, con l’appoggio dalle truppe italiane. L’intera Jugoslavia diventa territorio di stragi e di crudeltà. Alla fine della guerra, sarà uno dei paesi che avrà pagato il più alto tributo di morti: 1 milione e mezzo di persone su 16 milioni di abitanti. Le fonti serbe attribuiscono la responsabilità della morte di 300 mila persone alle truppe di occupazione italiana, in particolare la II Armata sotto il comando del generale Roatta. Le peggiori e più inumane condizioni si verificano nella Jugoslavia meridionale, dove si apre una vera e propria caccia al serbo. Con spedizioni italo-croate contro i villaggi e le cittadine serbe, in un’orgia di violenze di ogni tipo, dove centinaia di uomini, donne e bambini vengono torturati e uccisi. Un’altra storia, insomma, caduta nell’oblio, dove sono gl’italiani aguzzini e carnefici, con un bilancio di non meno di 250 villaggi distrutti. Le deportazioni della “inferiore razza serba” furono massicce, e decine di migliaia di ex soldati o di cittadini serbi fu avviata ai campi di sterminio tedeschi o a quello della Risiera di San Sabba, a Trieste, assieme con ebrei ed altre minoranze. E nel settembre del ’42  in quelle zone c’erano anche gli alpini del V Reggimento Artiglieria Alpina e del 7mo Reggimento Alpini aggregati al Battaglione Val Leogra, a caccia dei ribelli, ossia i partigiani jugoslavi che difendevano la loro terra! Opera nostra anche la costruzione dei campi di concentramento di Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar,  Rab (isola di Arbe). E, in Italia, quello di Gonars (Udine), dove morirono di fame migliaia di bambini soprattutto croati, Monigo (Treviso), Renicci di Anghiari (Arezzo) e  Padova. Secondo stime rapportate nel volume dell’A.N.P.P.I.A. Pericolosi nelle contingenze belliche, i fascisti internarono quasi 30 mila sloveni e croati, uomini, donne e bambini. In Slovenia, già dall’ottobre del 1941, il tribunale speciale pronuncia le prime condanne a morte. E il mese dopo entra in funzione il tribunale di guerra. Con l’intervento diretto dei comandi militari italiani, la politica della violenza si esercita nelle più svariate forme. Iniziano le esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico delle città e rastrellamenti. Si parla addirittura di deportazione di massa, con il trasferimento forzato degli abitanti di Lubiana. Progetto che i comandi discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio 1942 . (rdn)

Foto: Archivio Prefettura di Trieste, Polizia della Venezia Giulia, Divisione criminale investigativa, Atti di gabinetto, b. 18, nota dell’ispettore capo Feliciano Ricciarelli al prefetto di Trieste, 6 ottobre 1945, prot. 481

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