Un processo politico caricato da forti pressioni dai “padroni del vapore”. Per chiudere in fretta le indagini, mettendo sul piatto 10 miliardi di vecchie lire per i risarcimenti e sottrarsi all’azione penale. Queste in sintesi le conclusioni del convegno “Due arringhe per il Vajont” che si è tenuto venerdì pomeriggio in Sala Bianchi a Belluno. «Venne nel mio ufficio un giovane avvocato che si chiamava Giovanni Leone – ha raccontato Mario Fabbri all’epoca giudice istruttore del processo – che mi disse di poter mettere sul tavolo 10 miliardi di vecchie lire per i risarcimenti». L’obiettivo del parlamentare democristiano, futuro capo dello Stato, era evidentemente quello di chiudere in fretta il caso, pagare i superstiti e sottrarre dall’azione penale i responsabili della immane tragedia. Di più. Il giudice Fabbri ha raccontato anche un altro aneddoto che la dice lunga sulle pressioni esercitate dal potere politico, servile nei confronti del potere economico della Sade. «In un viaggio in aereo stavano seduti dietro a me due parlamentari bellunesi esponenti della Dc che discutevano su come “far togliere l’indagine a quel giudice”. Allora mi alzai e mi presentai, dicendo che erano arrivati troppo tardi, perché essendo stato nominato giudice e la mia posizione era divenuta inamovibile. Bastava che si fossero attivati un paio di mesi prima ed avrebbero potuto trasferirmi dove volevano». Sul provvedimento di “legittima suspicione” che portò a celebrare il processo a L’Aquila, Fabbri difende la scelta della Cassazione, contrariamente alla posizione dell’avvocato Canestrini: «Venezia era considerata la “Corte Cini” (propietari della Sade ndr)e dunque il processo di appello che si sarebbe celebrato a venezia avrebbe incontrato ulteriori ostacoli». Sulla sentenza di primo grado de L’Aquila, Fabbri non usa mezzi termini «fu indegna! Il magistrato che presiedeva il Tribunale era bizzarro, e venne poi espulso dalla magistratura». Sulla stessa linea l’avvocato Sandro Canestrini, che si occupò delle responsabilità dei singoli imputati «Fu un processo politico – afferma, e rivolgendosi ai giovani avvocati in sala li mette in guardia e dice – La tecnica pura non esiste, è al servizio degli interessi. Guardatevi dai giudizi tecnici troppo sensibili ai quattrini. E dalle brave persone, sempre d’accordo con i potenti. Come Montanelli, che scrisse delle pagine orrende sul Vajont. Le brave persone, invece, sono quelle che si battono per la verità». Cita Brecht «se cade l’indifferenza è tutto finito» e gli ignavi di Dante, ossia «quelli che se ne lavano le mani di tutto e curano solo i propri interessi». Elogia il giudice Mario Fabbri, «l’uomo che ruppe il muro di ghiaccio. Che insieme al giudice Mandarino e l’avvocato Bertolissi, che devolse il compenso ai superstiti, portarono avanti la battaglia». Parla di Tina Merlin come “un’audace combattente per la libertà” che se ne andò con il rimorso di non esser riuscita a smuovere la maggioranza politica parlamentare. L’avvocato Tosi punta il dito su un avverbio: “impercettibilmente”. «Una montagna che si sposta di 4 metri in tre anni, secondo la relazione parlamentare era uno spostamento “impercettibile”! Tina Merlin lo denunciò nei suoi articoli su L’Unità, procurandosi una querela dai carabinieri, per la quale venne processata ed assolta»! Per capire l’aria che tirava, Tosi racconta l’episodio dell’arresto al primo processo a Padova di Rizzato.«Il geometra sottrasse temporaneamente la relazione del prof. Ghetti per far conoscere la verità. Avrebbe dovuto essere premiato per questo. Fortunatamente poi venne rilasciato e assolto»! Colpa, previsione, prevedibilità, Tosi scandaglia fatti e perizie e condanna l’ingegner Alberico Biadene, responsabile della Sade «perché quando vide piegarsi gli alberi sul monte Toc aveva ancora 10 ore per dare l’ordine di evacuazione. Non lo fece, e si affidò alla provvidenza».Il convegno è stato curato dall’avvocato Tullio Tandura, per l’Ordine degli avvocati di Belluno. Con introduzione di Adriana Lotto, presidente dell’Associazione “Tina Merlin”, che ha criticato la decisione del Senato che ha proclamato il 9 ottobre data in cui si commemora “l’incuria”. Il Vajont, infatti, non fu semplice incuria. La scelta di portare a termine l’opera a tutti i costi, nonostante vi fosse la consapevolezza dei gravi rischi presenti, fu determinata dai forti interessi economici. Il subentro dell’Enel alla Sade prevedeva il pagamento degli impianti funzionanti. Per questo il complesso del Vajont doveva entrare in funzione ad ogni costo!