
Addio a Giovanni Vigne reduce di Russia, alpino radiotelegrafista del Battaglione Valcismon. Giovanni Vigne, 87 anni, reduce di Russia è “andato avanti” come dicono gli alpini. Giovanni è il nono di undici fratelli, figlio di Luigi che all’inizio degli anni ’20 acquistò la segheria Veneziana al Mas di Sedico. E’ padre di Michele, presidente di Confedilizia veneto, e nonno di Gianluca, presidente dei giovani imprenditori del Veneto. Ha partecipato alla Campagna di Russia, rientrato dalla guerra avvia un’attività di trasporti. Nel 1949 fonda la Sima insieme ai fratelli, che cessa l’attività nel 1955. Emigrante in Svizzera lavora nella diga di Mauvoisin nel Vallese. E nel 1958 torna a Belluno. Nel novembre del 2007 Giovanni Vigne, nella sua casa al Mas di Sedico, ci raccontò la sua vita militare e la sua grande passione, la lavorazione del legno in un’intervista che riproduciamo.
Freddo, pidocchi e sangue
Il suo nome è tra quelli citati nelle testimonianze dei reduci contenute in “Fronte russo: c’ero anch’io”, il libro di Giulio Bedeschi. Giovanni Vigne di Mas di Sedico, classe 1922, alpino radiotelegrafista della Divisione Julia, Battaglione Val Cismon, aggregato al Nono alpini durante la Campagna di Russia. Il Val Cismon, tanto per capirci, è il battaglione che riceverà più medaglie d’oro e decorazioni della Julia, ed era formato da oltre 1600 uomini di cui solo 115 riuscirono a salvarsi. Dieci giorni prima dello sfondamento delle linee russe a Nikolajewka, per il soldato Giovanni Vigne termina la II Guerra mondiale. Quando era partito pesava 87 chili, e quando fece ritorno scese a 57. Il 16 gennaio 1943, durante un assalto in prima linea, con due proiettili anticarro lo colpiscono alla schiena e al gomito sinistro. Disinfettato, fasciato e rivestito con gli stessi indumenti insanguinati e pieni di pidocchi, Vigne arriva all’ospedale di Podgornoje, dopo una notte di viaggio in ambulanza. «La maggior parte di noi aveva i piedi congelati – racconta Vigne – io quel problema non l’avevo perché la vigilia di Natale del 1942 ci diedero gli stivali di feltro dei russi, prima di mandarci all’assalto. E la prima linea di fuoco toccava sempre ai più giovani, cioè quelli come me nati nel 1922. Tra l’altro io ero radiotelegrafista e non avevo nemmeno il fucile in dotazione, ma solo una pistola semiautomatica Beretta calibro 9 e alcune bombe. All’alba del 19 gennaio 1943, Podgornoje era un paese completamente bruciato e deserto. Benché ferito e dolorante accettai di lasciare l’ospedale e m’incamminai sulla neve ghiacciata, convinto da un commilitone. Dopo 40 minuti trovammo un’isba; due donne ci fecero entrare, e ci portarono delle patate calde con della pasta. Nella stanza accanto c’erano dei partigiani russi che, avvisati dalle donne che eravamo disarmati, ci lasciarono andare. Camminammo per tutto il giorno in direzione Karkov, come ci avevano indicato. Ma la sera ci ritrovammo ancora nello stesso paese. Il caso volle che quella sera una colonna dei nostri alpini transitasse nelle colline vicine al paese. Ci aggregammo a loro. Ma dopo un’ora ci fu un improvviso attacco dei russi: vidi i corpi saltare in aria. Oramai attendevo un colpo mortale che mi avrebbe fatto cessare tutte le sofferenze. Mi salvai, e decisi di andare avanti con quel reparto. Il mio compagno, di cui ignoro il nome, preferì ritornare indietro verso il paese. Fu l’ultima volta che lo vidi. All’alba del 20 gennaio ci fu un nuovo bombardamento che durò mezz’ora. Quando cessò ero circondato da cadaveri. Proseguii il cammino raggiungendo la colonna di soldati. Quella notte mangiai patate crude dalla fame. Ero sempre più stanco. Il giorno dopo incontrai il mio amico “Secco” (Secondo Vieceli, classe 1913). Devo a lui la mia salvezza, era un veterano della Guerra d’Africa e della Campagna di Grecia. Quando c’incontrammo, vedendomi ferito disse: “O ce ne andiamo via tutti e due o nessuno”! Il cielo era sereno e faceva sempre più freddo. Trovai altri due amici di Sedico, Carlo Viezzer e Ruggero Cervo. Dormimmo in una piccola isba. Ma il mattino del 22 gennaio Secco ci svegliò con un botto sfondando un vetro. C’erano i russi. Mi salvai anche questa volta salendo sulla slitta tirata dal mulo di Secco. Carlo e Ruggero vennero fatti prigionieri. Passammo su una scia di marchi, banconote fuoriuscite da una cassaforte militare tedesca, che nessuno si fermò a raccogliere, perché quando non c’è la salute i soldi non valgono nulla! Eravamo denutriti e la ritirata era sempre più dura. Marino Zanolla di Santa Giustina gridò che c’era un carro armato russo nascosto in un covone di grano. Ma non era vero, aveva le allucinazioni provocate dalle sue condizioni precarie. Si andava avanti senza parlare con il freddo, la fame e il sonno. Le mie condizioni peggioravano, l’infezione della ferita avanzava ed ero tormentato dai pidocchi. La febbre saliva e oramai avevo perso la cognizione del tempo. Finché una sera arrivò un camion con due militari che mi trasportarono insieme ad altri feriti e congelati in un ospedale. Due infermieri mi fecero sdraiare a pancia in giù su un tavolo e senza anestesia sentii una lama che prima mi tagliò le bende che avevo addosso da una decina di giorni e poi penetrò nella carne per asportare l’infezione. Mi fasciarono seduto sul tavolo, perché non mi reggevo in piedi. Provai a dormire, ma il dolore era troppo forte. Poi, verso le ore 22 iniziò un bombardamento aereo. Qualcuno gridò in dialetto bellunese: ”chi se la sente venga giù”. Pensavo di non farcela, e non so con quali forze scesi le scale e nel buio e in silenzio raggiungemmo una stazione ferroviaria. Anche questa volta fui uno dei fortunati che la mezzanotte del 5 febbraio del 1943 salì su un treno che ci portò a Gomel. All’ospedale incontrai Riccardo Raveane di San Gregorio nelle Alpi, che mi portò dal medico Blandino di Santa Giustina per sostituire la medicazione. Passarono alcuni giorni a dieta di minestrine, in attesa della tradotta che ci avrebbe riportati a casa. Non sapevamo più né pregare né pensare Dio o al nostro Gesù Cristo. Ci chiedevamo se l’essere ancora vivi fosse solo un caso, la fortuna, un miracolo, o la presenza di uno spirito. Forse fu proprio quest’ultimo a darci la forza di superare tutto questo. In quei giorni o volevo solo ritornare a casa per riabbracciare i miei genitori e i miei 5 fratelli (tre di noi erano militari). Il 17 febbraio 1943 la tradotta ci portò a Salsomaggiore. Scesi dal treno, ci fecero camminare in fila indiana attraverso un percorso dove nessun civile poteva avvicinarsi e parlarci. Penso che se allora ci avessero mostrati come eravamo conciati la guerra sarebbe finita subito e con meno morti! Dietro le porte di quell’ospedale fecero di tutto per farci riprendere vita. Camerette dove non mancava niente. Dottori, ufficiali, crocerossine, infermiere, suore, barbieri, cuochi ecc. Ci hanno lavati, puliti e accuditi. Lasciai l’ospedale l’8 aprile 1943.
Roberto De Nart (18.11.2007)

L’arte di Giovanni Vigne
Nell’immediato dopoguerra Giovanni Vigne lavora nella segheria di famiglia al Mas di Sedico, dove effettua trasporti con un autocarro. E’ emigrante in Svizzera per un paio d’anni, poi rientra e riprende l’attività di autotrasportatore. Lavora anche in altri settori. Ma in tutti questi anni non ha mai scordato la sua vera passione. Che è la lavorazione del legno. Così, da pensionato, può finalmente dedicarsi a tempo pieno a questo suo sogno. Acquista un tornio e l’attrezzatura necessaria ed inizia a produrre una lunga serie di oggetti in legno. Vasi, piatti di tutte le forme e dimensioni. Ma non è ancora pienamente soddisfatto, perché nei suoi ricordi di gioventù, ce n’è uno in particolare che gli frulla per la testa. E’ la segheria veneziana, quella risalente al 13mo secolo i cui ultimi esemplari sono rimasti in funzione fino agli anni ’80. Azionata dalla forza dell’acqua, è costruita interamente in legno compresi gli ingranaggi, il cui movimento è lubrificato dall’acqua. Vigne ricorda perfettamente la segheria veneziana dell’azienda di famiglia, dove aveva lavorato da giovane. E, ad 85 anni decide di riprodurla in miniatura, perfettamente funzionante, senza disporre di progetti, ma solo sulla base dei ricordi personali. Ce la fa. Funziona. Un gioiellino realizzato soprattutto per onorare la memoria del padre, il ricordo di quegli anni, della sua gioventù.
Un esemplare di segheria veneziana è visibile al Museo degli zattieri a Codissago di Castellavazzo.