I camosci del Monte Grappa sono in ottima salute. E hanno cambiato le loro abitudini di vita e di alimentazione per effetto del cambiamento climatico e della presenza del lupo. Sono le primissime evidenze emerse dallo studio ideato dal professor Marco Apollonio dell’Università di Sassari e finanziato dal Pnrr. Uno studio a cui collabora la Provincia di Belluno con la sua Polizia Provinciale (in collaborazione con le guardie provinciali di Treviso e Vicenza), e che è stato presentato ieri sera a Feltre, in un incontro pubblico molto partecipato, specialmente da cacciatori e riserve di caccia.
Il progetto di studio si pone come obiettivo di osservare come i camosci stiano cambiando le loro abitudini in base all’aumento della temperatura derivante dal climate change, e anche per effetto della presenza del lupo, predatore naturale. L’area di studio è quella del Monte Grappa, dove il camoscio viveva stabilmente fino alla Prima Guerra Mondiale e dove l’animale è stato dichiarato estinto a seguito del conflitto, salvo poi essere stato reintrodotto in modo artificiale negli anni Novanta con esemplari prelevati da Cortina e dal Parco Alpi Marittime. Lo studio, condotto dallo staff del professor Apollonio (docente di zoologia al Dipartimento di scienze della natura e del territorio dell’Università di Sassari) e coordinato dal ricercatore Rudy Brogi, è stato avviato nell’estate 2023, con la radiocollaratura di 25 camosci e 5 lupi.
I primi risultati presentati ieri derivano dall’intreccio dei dati gps dei radiocollari e mostrano da un lato le strategie di predazione dei lupi, dall’altro le strategie di difesa dei camosci. Il primo dato è che tutti i 25 camosci studiati sono ancora vivi e stanno bene, a dispetto di una mortalità annua che normalmente si aggira tra il 5 e il 10 per cento. Il secondo è che proprio gli ungulati hanno modificato le loro abitudini: hanno imparato a difendersi dalle predizioni del lupo evitando certe aree e cambiando gli orari di alimentazione; e si sono bene adattati all’aumento delle temperature prediligendo le zone abboscate, in questo modo non sono costretti a salire a quote superiori come fanno i camosci del resto dell’arco alpino, andando incontro a zone dove scarseggia la copertura erbosa e quindi la possibilità di trovare cibo.
«I risultati del primo anno sono incoraggianti e danno già prime risposte significative, come hanno segnalato i ricercatori» commenta la vice presidente della Provincia di Belluno, Silvia Calligaro, delegata nelle materie di caccia e pesca. «Con la partecipazione attiva della nostra Polizia Provinciale e delle riserve di caccia, il progetto di studio proseguirà, almeno per un altro anno e fino a quando non si scaricheranno le batterie dei radiocollari. I risultati finali permetteranno di conoscere a fondo le abitudini e lo spirito di adattamento di questo particolare ungulato. E rappresenteranno un valore aggiunto per il nostro territorio».
All’incontro di ieri sera, erano presenti anche le nuove guardie provinciali, con le nuove dotazioni per la squadra catture fornite da Manifattura Valcismon, e serigrafate da Seribell.