Sabato 25 marzo alle ore 18 al Museo d’arte contemporanea Burel in via Mezzaterra 49 a Belluno, avrà luogo l’inaugurazione di “Vertigine” di Roman Signer, artista svizzero che ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 1999 e le sue opere sono nei più grandi musei di tutto il mondo.
La mostra – realizzata con la collaborazione di Collezione Agovino e di Banca Prealpi SanBiagio – sarà visitabile dal 26 marzo al 7 maggio, tutti i sabati e le domeniche, dalle 14.30 alle 18.30 con ingresso gratuito. Domenica 9 aprile chiuso. Tutte le opere sono esposte su gentile concessione dell’artista.
Continua così il percorso attraverso i sentieri della vertigine. Belluno, città in cui il museo è radicato, è circondata dalle montagne. I suoi abitanti conoscono il tremore della verticalità delle pareti delle Dolomiti. L’ebrezza dell’affacciarsi su un vuoto fisico, profondissimo.
Siamo partiti proprio da Dino Buzzati, che il vuoto l’ha letto, codificato, disegnato e mostrato come una delle infinite possibilità dell’essere nel mondo.
Siamo oscillati pericolosamente nelle atmosfere di André Romão, affondando nel baratro di una vertigine tutta floreale e naturale, nella consapevolezza di un equilibrio messo a rischio dalla crisi ecologica, ma allo stesso tempo pronto a dischiudere nuovi assetti, altri termini e
possibilità. Ci saranno ancora fiori, domani?
Poi ci siamo permessi di perderci, e di cadere in un paesaggio inebriante e immaginifico, quasi un set cinematografico dove ogni elemento raccontato da Giovanni Giaretta e Matteo Rubbi era lì, concreto e reale, ma allo stesso tempo rimandava ad altro, in un continuo gioco di spostamenti, di incanto, e dell’illusione degna di un mago.
Adesso il testimone è nelle mani di Roman Signer – artista svizzero nato ad Appenzell nel 1938 – e in quelle dei suoi film.
La sua è una vertigine che si mette in gioco confrontandosi con la semplicità e la secchezza del linguaggio che pratica. Usa come strumenti materiali che conosciamo tutti: sabbia, acqua, gomma, alluminio, acciaio, esplosivo.
Oggetti comuni: sedie, sgabelli, fogli, secchi, palloncini. Elementi e concetti che non ci sono
distanti, dalla neve al movimento, dall’acqua all’aria.
Non immaginate questo dizionario come statico, come un elenco.
Ogni cosa, ogni pensiero, viene messo in tensione, a soqquadro, viene fatto saltare e esplodere, o spostato, buttato, rotto. Ogni abitudine è posta in una nuova relazione con il contesto, con la natura, con la situazione di partenza. Con ironia, forza graffiante, energia, con la decisione di un attimo che muta. Ma anche – come sottolinea la curatrice Barbara Casavecchia nell’intervista dell’apparato di approfondimento della mostra – con un’attitudine in grado di metterci in contatto con una fragilità, quella tutta umana, nostra.
E scoprirci esposti, profondamente noi, fragili come camminassimo su una superficie ghiacciata pronta a tradirci da un attimo all’altro facendoci finire giù, non può che
sorprenderci, farci sorridere e pensare, e darci le vertigini.