La fase II della trattativa che da alcuni anni le Organizzazioni sindacali hanno inteso sostenere con il governo sul tema della previdenza si è chiusa con un nulla di fatto. Ora al termine di questa fase di discussione risulta ovvio che si debba fare il punto della situazione e, come oramai tanti sanno, purtroppo ci troviamo di fronte a due distinta analisi tra sindacati , con la posizione della CGIL improntata a dichiarare una forte insoddisfazione sui risultati raggiunti.
Partiamo dall’inizio; la Legge “Monti-Fornero” ha quale caratteristica deteriore il fatto di aver costruito un sistema pensionistico rigido, in cui il criterio predominante per l’uscita dal lavoro e l’ingresso in pensione risulta quello anagrafico, oggi stabilito a 66 anni e 7 mesi per gli uomini (le donne si uniformeranno nel 2018), anzi adeguandolo automaticamente in crescita all’aspettativa di vita.
Sostanzialmente le pensioni di anzianità, oggi chiamate anticipate (perché permesse in anticipo all’eta’ anagrafica stabilita) tenderanno a scomparire per chiunque, pur con carriere lavorative sopra i 44/45 anni di contribuzione e soprattutto per i giovani visto il loro ingresso nel mercato del lavoro piu’ ritardato. Quindi la collocazione in pensione potrà avvenire solo tramite il criterio dell’età anagrafica, che per l’effetto dell’aumento dell’aspettativa di vita crescerà anche sopra i 67 anni previsti per il 2019.
La piattaforma unitaria del 2015 e le manifestazioni che hanno contribuito a sostenerla anche ad inizio del 2016 pone al centro la necessità di “riformare” la L. Monti-Fornero, passando su due parole d’ordine, ripristinare i pensionamenti di anzianità, con un minimo di 41 anni di servizio, e permettere una flessibilità d’uscita dal lavoro con le pensioni di vecchiaia a partire dai 62 anni d’eta, pur con una contribuzione minima di 20 anni da attività lavorativa piena.
La lunga trattativa, divisa in singole fasi in modo da poter acquisire risultati anno per anno senza sconvolgere i conti dello Stato e del sistema pensionistico, ha portato ad un primo accordo nel 2016 in cui si miglioravano le condizioni dei pensionati “in essere”, cioè quelli già in pensione (quattordicesima e adeguamento all’inflazione bloccato dalla L.Fornero) e soprattutto si introducevano due elementi che permettevano una uscita anticipata rispetto ai parametri rigidi della L. Fornero. Le due opzioni riguardavano i lavoratori precoci e le cosiddette APE Sociali, in cui una combinazione di criteri, tra cui quello del riconoscimento del lavoro “gravoso”, ha permesso l’inoltro di domande di pensionamento per una iniziale e discreta platea di lavoratori (66.000).
Soprattutto l’accordo con il Governo stabiliva che si doveva riprendere il confronto nel 2017, quindi con nuove risorse a disposizione, ipotizzabili sulla dimensione di quelle utilizzate nel 2016 (2 miliardi), su temi nuovi quali le pensioni per i giovani (taglieggiate dalla precarietà e dalla disoccupazione giovanile), gli avanzamenti automatici derivanti dall’aspettativa di vita, la separazione entro il calderone dell’INPS tra le risorse a disposizione per la previdenza (solo pensioni) e l’assistenza (sussidi vari) da sempre confusi entro un unico serbatoio a cui tutti attingono. Era un impegno che il Governo aveva sottoscritto.
La lunga trattativa del 2017 purtroppo ha disatteso quella firma; non solo, ma il governo ha fatto sempre capire che non intendeva mettere a disposizione cifre significative che facessero intendere di “umanizzare” la L. Fornero, di volere modificare quell’aspetto totalmente finanziario e di prelievo forzoso nelle casse dell’INPS con cui era stata istituita nel 2011.
Infatti i pochi avanzamenti ottenuti quali l’aumento della platea degli aventi diritto per l’APE Sociale e Precoci, aggiungendo categorie tra l’altro poco presenti in provincia di Belluno (marittimi, siderurgici, lavoratori delle vetrerie e agricoli), oltre alla “deroga” all’innalzamento dell’eta’ anagrafica per le stesse 15 categorie complessive degli aventi diritti all’APE Sociale, più garanzie general-generiche sulla volontà in futuro di riprendere il confronto, fa dire alla CGIL che il risultato è insoddisfacente. Ce lo confermano i dati che abbiamo elaborato in cui si evince che la platea complessiva che godrà dello “sconto di pena” del mancato innalzamento si aggirerà al massimo intorno ai 5-8000 lavoratori attivi (non 25.000 come parla il Governo) e che la spesa che il Governo dovrà stanziare sui bilanci dei prossimi tre anni al massimo toccherà i 65 milioni di €. Ricorderei che in questo solo Bilancio 2018 sono previsti 388 milioni di € a favore della detassazione per l’assunzione dei lavoratori a tempo indeterminato, intervento che tra l’altro ricorda quello della detassazione 2015 sui contratti a tempo indeterminato che costò allo Stato nel triennio ben 18 miliardi di spesa, senza ottenere risultati stabili contro la precarietà. Come dire si spende molto di più per favorire quegli interventi che le aziende hanno già programmato e sulla cui efficacia si dovrebbero nutrire forti dubbi, mentre non si investe realmente sul ricambio generazionale entro i luoghi di lavoro, per non gravare ulteriormente sullo stato fisico dei lavoratori italiani (quelli che hanno una percentuale maggiore di patologie invalidanti dopo il pensionamento nel rispetto della media europea), per favorire l’ingresso dei giovani al posto dei padri nel mercato del lavoro.
Se oggi il Governo si è dimenticato dei Giovani, non ha voluto bloccare gli automatismi della L. Fornero, non ha valorizzato il lavoro di cura e tutti i lavori faticosi, allora la mobilitazione è necessaria ed è per questo che sono state indette 5 manifestazione territoriali, tra cui quella di Torino a cui parteciperemo, perché il fronte sindacale si riunifichi sotto quelle stesse parole d’ordine del 2015; 41 anni bastano e a 62 possiamo scegliere se lasciare il lavoro , oltre che pensare al lavoro dei giovani ed anche a come costruire una previdenza buona anche per loro.
Mauro De Carli – Segretario Generale CGIL Belluno