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mercoledì, Settembre 27, 2023
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L’epopea dei minatori bellunesi nel libro di Arnelio Bortoluzzi

Ci sono libri che vanno diretti al cuore. Per i protagonisti, le loro fatiche, i loro sacrifici, le vicende umane che sono quasi sempre dolorose e tragiche. Quello di Arnelio Bortoluzzi, architetto di S. Giustina, che racconta attraverso l’esistenza del suocero l’epopea dei minatori bellunesi nelle miniere del Belgio, è uno di questi. Quei pozzi nel ventre della terra sono, ora, stati chiusi. Servono da memoria storica. Ma fino a qualche decennio fa hanno dato da vivere, spesso causandone la morte, a decine di migliaia di italiani tra i quali moltissimi veneti.

minatori della valbellunaUgo Casal, il protagonista del libro, era nato a Busa Parè, ai piedi della montagna. Terzo di sei figli, provato come i fratelli e i coetanei veneti fin dalla fanciullezza da una esistenza di sacrificio, non ha alternativa che il lavoro nelle miniere belghe. Attività in cui, dalla fine del secondo conflitto, sono occupati quasi esclusivamente stranieri: nel 1952 vi sono impegnati quasi 120 mila minatori (48.598 italiani). Il flusso di manodopera italiana in terra belga era stato favorito dal patto tra i due Paesi del 23 giugno 1946. Un accordo che prevedeva l’assunzione di cinquantamila minatori accolti dopo una visita medica severa nella quale a quei giovani veniva fatto sapere i rischi di salute cui il lavoro li sottoponeva. Cioè la terribile silicosi che ne causava la morte ancora molto giovani.

Arnelio Bortoluzzi traccia pagine commoventi sulla bellezza delle montagna bellunesi, che però non sanno dare futuro ai propri abitanti. Come Ugo, anche i fratelli e sorelle sono costretti ad emigrare. Vi è in queste pagine l’amore dell’autore per il proprio passato e quello aspro vissuto dalla generazione precedente. Ne esce una etica del lavoro e del dovere che la cultura odierna ha completamente dimenticato, se non anche disprezza. «Da millenni – scrive Bortoluzzi – i volti immobili e discreti delle montagna ci tramandano storie di uomini veri, cresciuti in quella civiltà contadina fondata sulla famiglia, sui valori spirituali e sull’amor patrio». In Belgio, invece, in quelle case tutte uguali e annerite dalla polvere di carbone, Ugo non trova più il profumo della natura, della stalla, del fieno, l’aria del bosco.

Arnelio Bortoluzzi
Arnelio Bortoluzzi

Ma la fame non offre alternative. Ed ecco l’arrivo sul posto di lavoro con un sentimento di paura che si impossessa presto dell’anima di quei giovani. I loro occhi, quando sono nelle viscere della terra, sono «diamanti incastonati» nel volto impregnato di polvere e sudore. E poi la paura degli incidenti, frequenti, imprevedibili, drammatici. E quelli che sopravvivono hanno dinanzi una vita con la prospettiva di un respiratore automatico. Così che quando scendono nella miniera sono quasi dei gladiatori che, prima o poi, moriranno. Condannati. I minatori dicono che «se l’inferno esiste è in fondo a una miniera». Dal 1946 al 1963 gli italiani morti in fondo ai pozzi furono 890. San Gregorio nelle Alpi ha avuto più morti in miniera che caduti nelle due guerre mondiali e ha dedicato a questi eroi (mai termine fu più adeguato) la “via delle Lampade spente” che dalla chiesa porta al camposanto. Anche le lacrime dei minatori sono “grigie” come la polvere che respirano e colora i loro volti. Vite stravolte di fatica. Come testimonia l’episodio di Alfonsina che non riconosce più il marito che esce dal pozzo.

L’autore racconta le difficoltà in terra straniera, la lingua sconosciuta, l’assenza di affetti, il cameratismo tra connazionali. Alternando l’aspetto umano a quello tecnico del lavoro. Ugo diventa uno specialista con la sua qualifica di “boutefeu”, fuochino. Colui che dà fuoco alle mine per aprire nuovi filoni di scavo. Un universo tragico nascosto, che il pudore dei minatori non vuole far conoscere a quelli che non lo hanno conosciuto.

Ma anche in questa esistenza fatta di paura, fatica e dolore c’è qualche speranza, c’è qualche barlume di gioia. Ed ecco che nascono nuove famiglie, spuntano le speranze dei figli. Così anche per il nostro Ugo che sposa Ninà, nascono Claudio e Beatrice. Fino al 1959 quando il medico gli impone di smettere quel lavoro. La silicosi si sta impadronendo dei suoi polmoni. Il minatore torna a casa qualche anno dopo, nel 1963, e quando si inoltra tra le montagne sussurra alla moglie: «Guarda Ninà, le casette bianche e pulite della Valbelluna». Poche parole che sintetizzano una vita e un nuovo futuro.

(Minatori della Valbelluna, Rasai, Edizioni DBS)

Sante Rossetto

 

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