
Esiste ancora uno stile italiano nelle costruzioni, come è stata l’architettura razionale degli anni ’30. Quello, per capirci, del Palazzo delle Poste a Belluno, o del Palazzo della Civiltà all’Eur a Roma?
Lo abbiamo chiesto all’architetto Roberto Pirzio-Biroli, artefice di grandi restauri. Suo il coordinamento di proprietari e progettisti del ripristino-restauro di Venzone dopo il terremoto del ’76, e dopo la caduta del muro di Berlino il restauro del paesaggio storico, ideato nel 1800 da Federico Guglielmo IV Hohenzoller, a Potsdam (Germania). Pirzio-Biroli è nipote da parte materna dell’ambasciatore della Germania (Repubblica di Weimar) a Roma, Ulrich von Hassell (oppositore al nazionalsocialismo, giustiziato nel 1944 a seguito del fallito attentato a Hitler del colonnello Claus von Stauffenberg). E discendente di Pietro Savorgnan di Brazzà, esploratore e fondatore nel 1880 di Brazaville, capitale del Congo francese. Lo abbiamo incontrato a Cortina d’Ampezzo, che rimane sempre l’esclusivo salotto delle Dolomiti bellunesi, punto d’incontro di arte, cultura e mondanità.
«L’architettura italiana oggi» afferma l’architetto Pirzio-Biroli «se si esclude l’international style “ultimo grido”, il decostruttivismo, sta ancora lavorando sulle basi compositive create nel Ventennio. Mussolini, a differenza di Hitler che caccia architetti del calibro di Eric Mendelsohn perché di origine ebraica e l’intera Scuola della “Bauhaus” di Walter Gropius, incoraggia le giovani promesse italiane dell’architettura, permettendo così all’Italia di entrare nel panorama internazionale delle costruzioni». A chi si riferisce in particolare? «Giovanni Muzio, Carlo Mollino, Giuseppe Terragni architetto della Casa del Fascio a Como 1932, Mario Ridolfi, Carlo Daneri, Ludovico Quaroni, Adalberto Libera progettista nel 1938 di Villa Malaparte, una nave incastonata nelle rocce di Capri. Mussolini, insomma, fa costruire l’espressione del suo regime. Ma gli architetti e gli artisti che mette all’opera vanno oltre. Perché senza quel periodo, l’architettura italiana non sarebbe mai entrata nel movimento mondiale dell’architettura moderna»! Architetto, non sarà mica nostalgico del regime?

Insomma, condanniamo i regimi, ma salviamo le opere. «Certo. Chi mai vorrebbe abbattere lo Stadio Olimpico del 1936 di Berlino realizzato da Albert Speer? Che era un grande architetto, e tuttavia ancor oggi è difficile dirlo in Germania. Tutta la Berlino dopo la caduta del Muro è ispirata al razionalismo italiano del Trentennio. Ma non si deve dire. Per non parlare della bonifica delle paludi pontine di quell’epoca, con le “città di fondazione” di Latina e Sabaudia, progetti di dimensioni tali che nemmeno gli attuali Fondi Europei per lo sviluppo rurale hanno il coraggio di intraprendere. Così pure le opere di difesa del suolo in pietra con i terrazzamenti di Val Pesarina (Udine) e in Carnia». E sotto il profilo urbanistico? «E’ lo stesso discorso. Daneri e Muzio disegnavano i piani regolatori in assonometria con l’architettura dei volumi. Pochi gli eredi di questo periodo storico che rappresenta lo stile italiano. Un nome per tutti: Aldo Rossi e il cimitero di Modena “Una struttura d’ossa, una città d’ossa, fatta di ossa abitabili” come egli stesso la definì. Erano periodi in cui si disegnava un’intera città, in un progetto artistico con rapporti armonici tra i volumi e le piazze ispirati alla grande pittura metafisica di De Chirico. Una fusione tra architettura ed arte, non già piani regolatori astratti con zone artigianali, zone di futura espansione senza architettura. La casa del Fascio di Como del Terragni, costruita nel ’36 in cemento chiaro, con interni in marmo bianco ricorda la composizione di un palazzo rinascimentale. Una realizzazione che suscita ancora oggi considerazione a livello internazionale. Ma nei libri di architettura moderna si citano gli architetti, ma non si descrive il periodo in cui sono stati chiamati a operare e l’istituzione pubblica che li ha incaricati. È ora di superare queste inibizioni e questi proibizionismi ideologici ed essere fieri di discendere dai maestri degli anni ’20 e ’30 del 1900, fieri dell’italianità dell’architettura di quel tempo, di tutta la storia d’Italia non di una sola parte».