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giovedì, Settembre 21, 2023
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Speciale Afghanistan * di Federica Fant

base di Bakwa
base di Bakwa

Nella base di Bakwa, il posto più pericoloso del Regional Command West

 La base del 7° Alpini di Belluno di Bakwa rassomiglia alla Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari. Purtroppo, però, in Afghanistan i Tartari di Dino Buzzati non si fanno solo attendere, ma esistono e si chiamano “insurgents”, ovvero briganti e, nella maggior parte dei casi, sono i talebani. Gli uomini del reggimento bellunese, coadiuvati da colleghi di altri comparti, sono arrivanti alla base, battezzata (ovviamente) Camp Lavaredo, a metà agosto. Gli americani e i georgiani, gli unici militari presenti in quell’area della provincia di Farah prima dei nostri, avevano lasciato giusto le mura perimetrali. La prima cosa che hanno fatto gli alpini è stata quella di costruirsi una così detta «bolla di sicurezza» per poter operare in libertà. Poi, sotto il caldo degli oltre 40 gradi estivi, hanno costruito tutto il resto. Ovvero il bunker per ripararsi dalle aggressioni, la mensa, (per il primo mese si sono cibati quasi esclusivamente di razioni K americane), i bagni (in principio hanno dovuto accontentarsi dei sacchetti igienici), poi le tende per dormire (in estate potevano dormire al fresco sotto il cielo stellatissimo di Bakwa) e le strutture per le varie cellule del reggimento.  Ogni giorno gli alpini lavorano su un terreno impolverato da una costante sabbia, che ti riempie scarpe, vestiti e il respiro. Sembra borotalco. Il 7°, in Afghanistan, è una famiglia allargata. Si sente nell’aria ed è facile entrare a farne parte. Si scherza con le provenienze: «lui è polentone, lei è terrona» dicono tutti sorridendo. In centro al Camp Lavaredo c’è la cappellina in legno in ricordo di Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville, Marco Pedone saltati su un ordigno il 9 ottobre scorso, nel giorno del ricordo della tragedia del Vajont. Mancano a tutti alla base. Sono i primi caduti di tutte le missioni del 7°. L’appuntamento col destino ha colto tutti impreparati. Sono morti svolgendo il loro valore: dovevano portare in salvo una settantina di autisti afghani, dopo che due erano stati freddati con un colpo alla nuca e uno sgozzato, perché considerato traditore. Rei soltanto di aver fornito materiale al militari della missione Isaf. Una delle principali attività del ragazzi è quella del pattugliamento della zona, rischiosa, ma necessaria. Non sono mancati episodi in cui gli “insurgents” hanno aperto il fuoco contro la base di Bakwa. Federica Fant

Dove si trova il 7°
Gli alpini del 7° reggimento di Belluno sono in prima linea: lavorano nella zona più “calda”del Regional Command West, il comando Nato, situato ad Ovest, a guida italiana in Afghanistan. Vasto quanto l’Italia del nord, è suddiviso in vari settori. Da metà luglio, conta di una nuova unità di manovra destinata a operare nella provincia di Farah nei distretti del Gulistan e di Bakwa, nel settore sud-orientale dell’area di responsabilità del comando. I primi di dicembre il generale americano della missione Isaf (International Security Assistance Force), David Petraeus, ha visitato gli alpini del 7°in Gulistan. «L’approccio italiano» e i suoi risultati sono stati elogiati dal generale. Nell’occasione ha incontrato gli anziani del villaggio di Qal’a-I-Kuhna a poca distanza dalla base militare in un’area sicura al centro dello stesso.

Paolo Sfarra
Paolo Sfarra

 L’area, nel breve periodo di attività italiana, ha già ricevuto l’attenzione di quattro progetti Cimic (Civil and Military cooperation) volti a migliorare le condizioni di vita di quest’area periferica. Rivolgendosi al generale Petraeus gli anziani hanno ricordato come il lavoro del colonnello Paolo Sfarra e dei suoi alpini «sia sentito come fraterno e in linea con le loro esigenze».

Cos’è la Missione Isaf?
Isaf è una missione di supporto al governo dell’Afghanistan che opera sulla base di una risoluzione dell’Onu. È composta da una forza internazionale che impiega militari da una quarantina di nazioni. È stata costituita su mandato del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2001 con il compito di sorvegliare la capitale Kabul e la vicina base area di Bagram da Talebani, elementi di Al Qaeda ed eserciti mercenari, e in particolar modo proteggere il governo transitorio guidato da Hamid Karzai. Il sostegno italiano alle autorità locali e l’attuazione di programmi di sviluppo, così come il collegamento con le organizzazioni internazionali, viene assicurato dal Provincial Reconstruction Team (Prt) di Herat, unità costituita dagli artiglieri del 3° da montagna di Tolmezzo, con la presenza di funzionari della Farnesina.

I compiti del 7° nella zona più scomoda del West Afghanistan
Dire Gulistan, ma soprattutto Bakwa, al comando di Herat genera ammirazione soprattutto tra i militari con più missioni sulle spalle. Il compito degli alpini del reggimento bellunese è quello di presidiare un’area dove prima c’erano gli americani e poi i georgiani. Cosa non da poco, anche nella percezione stessa della popolazione locale. C’è da dire, con un certo orgoglio, che fin dalle prime settimane il ben noto “modello italiano” è già emerso in diverse occasioni, come quella del salvataggio di un bimbo di appena 25 giorni, intossicato da oppio (che gli afghani, tra i maggiori produttori mondiali, usano anche come medicinale). Ma sono molti e non sempre sicuri i compiti del reggimento di stanza a Belluno. Non sono affatto infrequenti gli episodi in cui i così detti “insurgents” (i criminali in generale, tra cui anche telebani) risalgono dal Pakistan e lanciano ordigni contro la base. Spesso i fucilieri sono impegnati a rispondere al fuoco per vari minuti prima di «neutralizzare il nemico», spesso mettendolo semplicemente in fuga.  Altre volte, come nel caso dell’agguato del 9 ottobre scorso, in cui persero la vita quattro militari (Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville, Marco Pedone) gli alpini si trovano in mezzo a scontri a fuoco, dove i Lince Iveco garantiscono la incolumità dei militari. Il compito principale del 7° è quello di «favorire la sicurezza, lo sviluppo e la governabilità da parte delle autorità locali a favore della popolazione, in un’area – ha spiegato il colonnello Paolo Sfarra – dove la presenza di strutture governative legalmente riconosciute è ridotta al minimo. La sua componente operativa comprende due unità di manovra a livello compagnia (la 66ª compagnia alpini e la 125ª compagnia mortai, entrambe del battaglione  Feltre del 7°)». Al 2° reggimento genio guastatori di Trento  è lascato il compito della bonifica di ordigni esplosivi ordinari (Eod) e per quelli improvvisati (Iedd) e la ricognizione delle strade. Ad occuparsi del vettovagliamento e del mantenimento della base è la compagnia comando e supporto del 7° alpini, con l’incremento di alcune capacità aggiuntive. La Fob Lavaredo è gestita da varie cellule. La S1 gestisce tutte le pratiche che ruotano intorno al personale. Gli incidenti, la documentazione caratteristica, la situazione della forza, le pratiche assicurative. La S2 è la cellula dedita all’informazione. La S3 si dedica alle operazioni, cioè alle operazioni ed è comandata dal maggiore Massimo Iuliano. La S4 è la cellula che gestisce tutta la logistica. Si intendono i materiali, i viveri, il gasolio e via dicendo). La S5 si occupa delle attività Cimic (civil and miliraty operation). Infine S6 è la cellula delle trasmissioni. Si tratta dei collegamenti con Herat: radio, telefono, internet. Nel Fob esiste una palestra, una lavanderia, un servizio barbiere (svolto dal maresciallo capo Giovanni Grilli, comandante del plotone allo schieramento). Per quanto riguarda i servizi igienici ci sono 12 turche, altrettante docce. Lavandini all’aperto. La mensa (gestita dal maresciallo Arduino Colella ) è bella grande, accogliente direi. Ho pranzato e cenato solo poche volte, ma posso dire che il cibo è di ottima qualità. Ed è anche molto apprezzato dai militari, che per il primo mese si sono cibati esclusivamente di razioni K americane.

Il medico Federico Lunardi, militare e volontario di Emergency

Il medico di Camp Lavaredo a Bakwa, in Afghanistan, che accompagna i ragazzi del 7° alpini di Belluno (compreso nella Julia) si chiama Federico Lunardi (sulla destra nella foto, insieme al suo collega medico Emanuele Galeota). È un tenente colonnello alpino paracadutista di Bolzano, che attualmente opera al Comando forze operative a Verona.  Questa è la 5ª missione militare in Afghanistan, un’altra l’ha fatta nel 2002 per Emergency. «Ho dato inizialmente qualche consiglio a Emergency, un giorno ho conosciuto Gino Strada, poi è nato dialogo e amicizia. Così quando ho avuto la licenza, invece di andare a casa sono stato nella valle del Panshir, a Shebegan ho passato  40 giorni nelle carceri». Lunardi ha una quarantina di anni. Sua madre è veneziana, il padre dei Colli Euganei. Laureato in medicina interna a Padova, ha proclamato il Giuramento di Ippocrate a soli 26 anni. Non poteva fare altro se non il medico, la sua è una passione evidente, una vocazione trasparente. Diventa militare solo il 5 maggio 1994, dopo il servizio di prima nomina a Udine, poi vince un concorso. «Amo il mestiere che mi sono scelto come medico. Inoltre ho avuto il privilegio di essere degli alpini paracadutisti dove ho potuto arrampicare e anche lanciarmi sempre entusiasta, riuscendo a capire i miei limiti. Penso che per essere in pace con sé stessi, bisogna essere felici, appagati di ciò che si fa». In Afghanistan il ten.col. Lunardi accoglie in base la popolazione che si reca nel suo ambulatorio. Alcuni giorni esce dalla base, con il suo aiutante il tenente Emanuele Galeota, nei villaggi, dove gli afghani attendono in fila il proprio turno. «Comincia ad arrivare anche qualche donna», ha spiegato Lunardi. Le patologie che si verificano più frequentemente sono casi di esiti di poliomelite, malattie congenite dovute al fatto che spesso i matrimoni si contraggono con famigliari. «Pare che Maometto abbia detto che non c’è miglior moglie della cugina», racconta. Negli adolescenti sono frequenti le calcolosi molto marcate e poi il capitolo delle ustioni è abbastanza corposo. Quello a cui vorrebbe arrivare il medico Lunardi? «Affiancare i medici locali, per assicurare una certa cura della popolazione anche quando ce ne saremo andati. Fin da ora prescriviamo medicinali afghani». Il medico Lunardi era nella colonna mobile del 9 ottobre scorso. È lui ad aver constatato il decesso dei quattro militari saltati sull’ordigno mentre tornavano alla base. 

 

Vita Giostra
Vita Giostra

Una donna in missione

Vita Giostra ha 24 anni, è nata a Montelepre (Palermo), ma è bellunese di adozione da diverso tempo, abita nella centralissima via Mezzaterra. Occhi azzurro ghiaccio che la matita  e il rimmel evidenzia ancor di più, capelli un po’ sbarazzini, molto femminili. È una magazziniera di compagnia. Ama molto leggere, quando ha tempo libero la trovi spesso impegnata nella lettura. Sa anche ballare molto bene. L’unica cosa che le manca in missione, oltre alla famiglia è «l’essere donna». È arrivata a Bakwa il 16 agosto con i primi 50 alpini del 7°. Quella di Isaf è la seconda missione che fa, nel 2008 è stata impegnata in Kosovo, per la proclamazione dell’indipendenza. All’inizio a Bakwa ha trovato «tanta polvere e tanto caldo». Nessuna comodità, soprattutto per quanto riguarda la toilette. «Usavamo sacchetti igienici, siamo addestrati a tutto noi militari. Le docce si facevano con l’acqua naturale e, magari, con qualcuno che stendeva una tenda davanti per un minimo di privacy. Per quanto riguarda i nostri pranzi e cene, per una ventina di giorni abbiamo mangiato solo razioni K americane. Sapori che non ci appartengono. Ma la fame ha fatto piacere anche quelle. Soprattutto i biscotti al burro e le caramelle, forse meno i fagioli col tonno e la pasta alla salsa barbecue. Ogni tanto riuscivamo a farci una pasta». In missione non sei donna o uomo, sei un militare, quindi «ho montato tende e riempito sacchetti a terra per il perimetro della base. Si scaricava containers, sistemando il magazzino». Poi gli amici saltati in un ordigno. « Lo abbiamo saputo verso le 10 di mattina, tramite il passa parola. Un clima surreale. Non ci credevamo. L’agguato è stato visto come un atteggiamento sleale. C’era molta rabbia e molto dispiacere. I ragazzi sono morti senza avere il modo di difendersi. Subito si è abbassato il morale che però era dominato da un senso di rabbia». Niente è cambiato nella percezione della brava gente afghana incontrata nei giorni precedenti. «Perché loro non c’entrano nulla. Poi quello è il nostro lavoro. Abbiamo i nostri doveri e soprattutto i nostri valori. A noi fa piacere vederli e fargli capire che ci siamo e che siamo anche utili». Cosa le manca? «L’essere donna. La parrucchiera, l’estetista. Mancano gli indumenti civili. La libertà della solitudine, non abbiamo spazi nostri».

Nicola Balliana
Nicola Balliana

Nik the trick, il maresciallo del 7°
«Sono nato dentro una botte di vino bianco, prosecco doc», si è presentato così il maresciallo ordinario Nicola Balliana, trevigiano impegnato nella missione Isaf in Afghanistan. Fa parte della 65° compagnia fucilieri del 7° reggimento alpini di Belluno: “La manilla”. É nato a Valdobbiadene, ma da quando si è sposato con Barbara risiede a Sernaglia della Battaglia, da sei mesi è il papà della piccola Arianna, che non vedo ormai da quattro mesi. Tra i ragazzi del 7° è noto come Nik the Trick ( Nicola lo scherzetto). Nicola, classe 1978, infatti, è conosciuto per gli scherzi che fa molto frequentemente a tutti. Si racconta che una volta abbia lanciato dalla finestra del 7° un gavettone pieno di acqua (fredda di frigorifero) e che abbia colpito un maresciallo fuciliere scelto, che non l’ha presa molto bene. «È andato dal superiore e mi stava quasi per punire», ammette Nicola. È stato assegnato alla Fob del Gulistan, che si chiama Ice. Si trova in una zona non molto tranquilla della Task Force South East, è la zona dove però vengono mandati i più valorosi. Quando ad agosto sono arrivati alla base, l’hanno trovata vuota. Ora hanno piantato tende, costruito casette di legno per le varie cellule. C’è ancora la mensa da campo e le docce e i bagni (che sono turche per tutti) sono molto spartani. Questa è la vita militare e tutti ne vanno fieri, il maresciallo Balliana è uno di loro. Era nel convoglio dei primi di ottobre, dove per portare in salvo settanta civili afghani, hanno trovato la morte quattro dei suoi colleghi. Per tornare alla base ci sono stati vari imprevisti, ma tutti superati. Si occupa del Fac, è in poche parole un controllore aereo avanzato. In pratica controlla l’attacco terminale degli aerei (che hanno telecamere mirate per visionare i movimenti sospetti, quelli dei posizionamenti degli ordigni) in supporto delle truppe di terra. I lince hanno infatti il contatto diretto con le telecamere dei caccia bombardieri che sorvolano il cielo e controllano i movimenti degli insurgents. Balliana comanda tre uomini nella sua cellula: il sergente veneziano Gabriele Alberi , il 1° caporal maggiore Luca Silvi di Viterbo e il 1° caporal maggiore Federico Francescon di Conegliano. La lingua dell’aeronautica è l’inglese, ma quando dall’altra parte trova un italiano, l’accento trevigiano lo tradisce e capita che riesca a comunicare in italiano. In base il «ciao vecio» lo contraddistingue. A casa la sua famiglia è orgogliosa di lui, la moglie Barbara lo aspetta  e la piccola Arianna, che ha lasciato a due mesi in Italia, ora ne ha sei. «Ieri mi ha detto “na” e “la” – racconta con una luce diversa negli occhi -. La chiave di lettura della missione è la bimba, ogni giorno che passo qui lei diventa sempre più grande, conosce sempre più il mondo. Anche per le mamme e i figli è una missione quando noi siamo all’estero».

I mentors: i militari istruttori

Con un CH 47 sono giunti, a metà dicembre, tra le alture del Gulistan, i primi militari dell’Afghan National Army che andranno ad operare con gli alpini del 7° che da settembre prestano servizio in un’area delicata al confine con l’Helmand. La presenza del personale afgano, per quanto ancora minima, permetterà da un lato una maggiore possibilità di collegamento con la popolazione civile, dall’altro una più ampia capacità d’azione degli uomini sul terreno. La Task Force South East, su base 7° reggimento alpini di Belluno, opera nell’area del Gulistan a 400 km dal capoluogo Herat in una valle particolarmente impervia. Con una serie di movimenti assicurati dalla Task Force Fenice dell’Aviazione dell’Esercito un plotone afghano proveniente dalla 2° brigata di stanza a Kafir Kala ha raggiunto la Fob “Ice” sede del battaglione “Feltre”. Una cinquantina sono i militari afghani che, seguiti da due mentor, andranno ad operare con gli alpini. «Il plotone fa parte del 2° kandak di manovra»spiega uno dei mentor il maggiore Andrea Salvador «sono il nucleo avanzato di una unità che potrebbe essere schierata in questa zona». Tra pochi giorni i militari afghani lavoreranno sul terreno gomito a gomito con il personale italiano in quell’area. La presenza dell’esercito si va ad aggiungere a quella della polizia in un progetto di incremento della presenza degli assetti del governo afghano in un’area che fu zona di attività degli insurgents.
Cimic: i progetti del 7° a favore della popolazione afghana
La solidarietà, in Afghanistan, si nasconde anche sotto l’immagine di una beretta. La sicurezza, infatti, va messa al primo posto. Quando un villaggio è sicuro, allora si possono svolgere le “shure”, una sorta di consigli comunali allargati ai militari della missione Isaf, nelle quali, sorseggiando una bella tazza di thè afghano, si avanzano proposte, si avvallano richieste della popolazione locale. L’Elder, una sorta di sindaco – capo villaggio, insieme al mullah ( il leader religioso) spiega e descrive quali sono le priorità per il suo territorio di competenza. Mano a mano che i militari conoscono la zona, acquistano fiducia tra la gente, la collaborazione può partire sicura. È un do ut des: si garantisce la sicurezza, si cerca di andare incontro alle esigenze del luogo sperando di avere in cambio qualche utile informazione per debellare i rischi della missione; sperando,insomma, di individuare e consegnare alle forze militari afghane qualche “insurgents”. Ad occuparsi della cellula Cimic (Civil e military cooperation)  per il 7° reggimento Alpini di Belluno è il tenente Gianluigi Rubini. «È importante capire a fondo la cultura afghana, non si promette niente ma ci si sforza al massimo per capire  quali sono le priorità. Non si può né sprecare denaro, né perdere un’occasione per fare al meglio il proprio compito», spiega il tenente. In Gulistan, fin’ora, sono state installate alcune pompe per l’acqua: «le falde acquifere ci sono, il sottosuolo ne è ricco, purtroppo però quando si rompono le pompe, non c’è possibilità di sistemarle». Sono state recintate cliniche e scuole, per evitare che vengano bruciate dagli insurgents, che preferiscono che la gente locale viva nell’ignoranza. «Ci chiedono spesso anche mura contenitive, quando c’è la stagione della pioggia, i fiumi si gonfiano e l’acqua porta via buona parte del terreno, per loro è un vero e proprio disastro». Le richieste ai vari contingenti sono scritte a mano, da una parte di daari, la lingua locale, dall’altra in inglese. Sono firmate con degli spilli e autenticate con la firma: gli elder si firmano con il pollice. Dal 1° di settembre il 7° ha inoltrato al Prt di Herat già undici progetti. Uno di questi è per la scuola di Ghoyney, uno dei villaggi più a sud, praticamente dove arriva la bolla di sicurezza della Task Force Sud Est. Al di là del villaggio vivono i telebani. Quella scuola verrà utilizzata da 300 bambini (che comprendono anche quelli dei villaggio vicini). Ambizioso è il progetto per la scuola femminile di Qal’a-I-Kuhna, che verrà terminata a breve. «È già stata bruciata almeno tre volte – racconta il tenente Rubini-. La scuola femminile non è proprio concepita». Eppure è stata espressamente richiesta dall’Elder. Si insegna matematica, scienze,geografia, religione. Verrà inaugurata a breve, prima del Natale 2010. È costata circa 20 mila euro. 10 mila sono stati dati dalla provincia di Trento per la costruzione delle mura, circa 7000 sono stati dati dalle Associazioni alpine di Belluno e Vicenza per comprare tutto il materiale: dai banchi alla cancelleria. 

 

Jena Noviello
Jena Noviello

Jena: le mie avventure con Geronimo Stilton

Il personaggio del topo più amato dai bambini, Geronimo Stilton, che si chiama Jena in realtà è un lagunare della Serenissima. L’abbiamo incontrato nella fob El Alamein di Farah. Occhiali da sole e ciuffo, tatuaggi e fisico palestrato, Jena è come si vede nei libri: il disegnatore del «direttore dell’Eco del Roditore» ,infatti, si è ispirato proprio a lui per costruire il topo macho della saga di Stilton. Il 1° maresciallo Jena Noviello (così lo chiamano i militari) ha cominciato la sua avventura di ispiratore per una nobile causa: contribuire a dare fondi all’ospedale di Padova, la Casa della Speranza. «Ho conosciuto la scrittrice di Geronimo Stilton  durante una gara nel deserto. Avevo un bambino, Jonathan, malato di leucemia, che era in cura nella clinica padovana. Casualmente in quella gara in Tunisia, la 100 chilometri del Sahara, ho stretto amicizia con Elisabetta Dami e Pietro Marietti della Piemme editore che si sono interessati a me e al mio caso. Dormendo insieme per tre giorni mi hanno trovato interessante, mentre parlavo – racconta Jena – prendevano appunti. Abbiamo così iniziato una collaborazione e sono nati i cinque libri di Jena, il cui ricavato va in buona parte devoluto alla Casa della Speranza». Tra i libri ricordiamo “Da scamorza a vero topo in quattro giorni e mezzo” e “La corsa più pazza d’America”, che è stata ispirata dalla Race Cross America, che da San Diego fa percorrere ad un team di 7 ciclisti il percorso fino ad Atlantich City: circa 3500 miglia, 5000 chilometri. Jena ha 47 anni, vive a Padova, ha due figli: Jonathan, Lance, Armostrong di dieci anni «che ho chiamato come il ciclista», racconta e Nick di 15 «che è un grande snowbordista», racconta orgoglioso il maresciallo Noviello. In missione a Farah lavora nella sala operativa, a Venezia, dai lagunari, prepara fisicamente i ragazzi per la qualifica anfibia. Lo spirito di corpo, sebbene sia dai lagunari della Serenissima solo da febbraio, gli è già entrata nel sangue. Mentre aspettiamo il C130 per volare ad Herat, urla un «avanti ragazzi» e tutti i lagunari presenti si mettono a fare venti flessioni. Finita la ginnastica, rimbomba solo il loro grido: «San Marco! San Marco!». 
I Black Cats
I Black Cats sorvolano i cieli di Herat e Farah senza soluzione di continuità. In Italia sono conosciutissimi: sono il 51° Stormo di Istrana (Tv). Si tratta di uno stormo da ricognizione ed appoggio tattico dell’Aeronautica Militare operativo con il velivolo Amx. Dipende dal Comando delle Forze da Combattimento di Milano e oggi ha sede presso l’Aeroporto di Istrana. Lo stormo, intitolato alla memoria del sergente pilota Ferruccio Serafini, ha come reparti il 103° Gruppo e il 132° Gruppo. Abbiamo conosciuto il comandante,il maggiore Michele Grassi, oltre 1700 ore di volo all’attivo, incidente compreso. Il suo casco, infatti, ne riporta i segni, «ma ci sono affezionato e lo tengo per ricordare di stare sempre attento», spiega il maggiore. I compiti impiegati per la missione Isaf sono i più diversi. Senza dubbio il controllo delle aree a rischio è tra quelli più di nicchia e anche quello tra più richiesti tra le altre forze Nato. In pratica si tratta di una ricognizione specifica dove il velivolo (un caccia bombardiere) registra con telecamere avanzatissime, che possono mettersi in collegamento con un computer posizionato in un Lince, movimenti su una determinata area.

Federica Fant

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