
Ho incontrato Benito Palla Montesi tre anni fa nella sua casa di Sospirolo (Belluno), per scrivere l’articolo che segue per il mensile La Pagina. Ci siamo seduti davanti a un bicchiere di vino, che da queste parti non manca mai. Benito ha iniziato raccontandomi un po’ della sua vita, della famiglia, delle figlie, dei suoi anni passati a Rio de Janeiro, delle belle donne brasiliane. Ma proprio in quel momento passa sua moglie che commenta “oramai saranno vecchie anche loro…”. Quando gli chiedo perché abbia optato per il romanzo anziché per un libro storico, Benito mi dice che gli era impossibile dopo tanti anni verificare i dettagli precisi del suo racconto e che non disponeva nemmeno di tutti i dati necessari per un libro storico, per questo motivo ha scelto la forma della narrativa. “Ultimo tramonto a Kharkow” è il titolo del romanzo autobiografico di Benito Palla Montesi, alpino reduce di Russia nativo di Sospirolo, classe 1922, rocciatore e perito minerario. Stefano, il protagonista della storia, è un soldato della Divisione Tridentina, Reggimento VI Alpini, Battaglione Vestone, che fa parte dell’ARMIR (Armata italiana in Russia), il Corpo militare che combatte nella zona del Don contro l’esercito sovietico tra il luglio 1942 e il febbraio 1943. Stefano svolge il suo servizio su una postazione a pochi chilometri dal Don. E sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, il suo destino si incrocia con quello di Yara, una ragazza russa che abita in un villaggio vicino, della quale s’innamora. Stefano è anche un buon sciatore e nei momenti di quiete non esita a raggiungere la ragazza. Ma arriva l’ordine di partire e le strade dei due giovani si dividono. Il ricordo di Yara, tuttavia, rimarrà per sempre nitido ed immutato nella mente di Stefano. E quando rimane ferito e senza più forze, nel gelido inverno russo, è a lei che pensa per trovare la forza di proseguire. Stefano riesce a cavarsela, ma non rivedrà più la sua Yara. A questo punto lasciamo il romanzo per sentire direttamente dall’autore i ricordi di guerra e come è riuscito a sopravvivere ai vari conflitti a fuoco e alla battaglia decisiva di Nikolajewka. «Nel corso della ritirata, facevo parte del gruppo in testa formato da una ventina di uomini – spiega Benito – e certamente eravamo quelli più esposti ai rischi. Ma sapevo che solo in questo modo sarei riuscito ad arrivare per primo nelle casbe russe. E qualcosa da mangiare l’avrei certamente trovato». La mattina del 26 gennaio 1942 il battaglione Vestone in testa, con il Verona e parte del Valchiese, inizia l’attacco a Nikolajewka. «La maggior parte di noi cade sotto il fuoco nemico prima di raggiungere la linea russa schierata sulla ferrovia. Io riesco a superare i binari – racconta Benito – e raggiungo un’isba. Sfondo una finestra e riesco a mettermi in salvo. Da lì vedo una grande massa di soldati italiani, alcuni anche senza armi, che all’ordine d’attacco si buttano allo scoperto contro la linea difensiva russa. C’è anche un aereo russo che in un primo momento sorvola e bombarda. Ma dopo un primo passaggio se ne va. Ho sempre pensato che non volesse ucciderci». Durante la ritirata Benito riporta il congelamento dei piedi e verrà ricoverato all’ospedale di Kharkow (o Karkov, nelle cartine indicata anche come Kharkiv, Charkiv, o Harkov in russo). Una città di circa 1 milione e mezzo di abitanti nell’Ucraina orientale, alla confluenza dei fiumi Kharkiv, Lopan e Udy. Dove nell’agosto del ‘43 le divisioni tedesche dotate dei nuovi carri armati Tigre battono l’esercito russo sei volte più consistente. E, per uno strano gioco del destino, Kharkow è anche la città dove una ventina d’anni prima la mamma di Benito, nata ad Odessa da genitori italiani, abitava e frequentava il collegio dove poi avrebbe conosciuto il futuro marito e padre di Benito. La donna morì quando lui aveva solo due anni e il fratellino 8 mesi. «Quando mi trasportano dall’ospedale militare alla stazione ferroviaria – prosegue Benito – non sapevo ancora se quel treno ci avrebbe rimpatriato o se invece ci portavano a ricostituire i reparti per continuare a combattere. Ebbene, mentre guardavo il tramonto dissi a me stesso che quello sarebbe stato in ogni caso “L’ ultimo tramonto a Kharkow”. Perché piuttosto che continuare a combattere sarei fuggito»! Quel treno, fortunatamente, era diretto in Italia. Qualche tempo dopo, l’8 settembre del ’43 viene sottoscritto l’armistizio e Benito viene reclutato dalla Todt a Romano d’Ezzelino, come capocantiere per la costruzione di opere e postazioni che avrebbero dovuto ostacolare l’avanzata degli anglo-americani. Nell’immediato dopoguerra Benito sceglie di emigrare prima in Belgio, dove lavora in miniera. E poi in Brasile, dove nel 1948 partecipa alla costruzione del tunnel di Rio de Janeiro che collega Capocabana all’entroterra. Dal 1962 al 1980 lavora all’Ambasciata italiana di Rio, presso il Centro culturale Italia-Brasile. Finché rimpatria nella sua Regolanova di Sospirolo (Belluno) dove vive tutt’oggi.
Roberto De Nart