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sabato, Dicembre 2, 2023
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Nel silenzio dell’aquila, con Mirna Fornasier

Cosa deve essere camminare in completa solitudine per tanti giorni? Cosa deve essere farlo lassù, nel Grande Nord, dove tutto è immutato dalla notte dei tempi, dove non esistono strade, alberghi, elettricità, funivie; dove le poche persone che incontri percorrono la terra con grande rispetto, e i loro occhi raccontano le stesse cose che raccontano i tuoi. È per trovare una risposta a questi interrogativi che a fine giugno del 2008 Mirna Fornasier, bellunese, appassionata di trekking e montagna, frequentatrice dei percorsi della Scandinavia, parte zaino in spalla alla volta dell’ultima grande area wilderness d’Europa, il Padjelanta National Park, nella Lapponia svedese. In completa solitudine, attraverso i paesaggi mozzafiato e la natura estrema della terra dei Sami, la sua marcia avventurosa per 150 chilometri è raccontata in questo libro appassionato, corredato da numerose foto del viaggio, per voce di Miki, l’alter ego dell’autrice, una madre quarantenne alla ricerca della salvezza per suo figlio adolescente, scampato per miracolo ad un incidente d’auto all’uscita di una discoteca. La lezione che Miki trarrà dalla sua esperienza sarà di una potenza inaudita. Con la forza devastante di un ciclone infrangerà in un sol colpo le sue barriere mentali e fisiche costruite nel corso della sua esistenza. Il rispetto e l’ammirazione per la natura non addomesticata, il silenzio della solitudine, l’ascolto del palpito antico della grande Madre Terra, il mettersi alla prova sfidando se stessi, l’abbandonarsi alle sole proprie energie, trasformeranno la marcia di Miki in un cammino dentro la sua anima, nella riscoperta delle primordiali e selvagge origini della vita.

Nel silenzio dell’aquila

È la corona delle Dolomiti bellunesi, che abbraccia la Valbelluna, la prima cosa che vedo al mattino. Le loro forme selvagge cambiano ad ogni ora a seconda della luce che le investe, così che non ci si annoia mai ad osservarle. La vallata verso sud è contornata dalle morbide ondulazioni delle Prealpi, dai cui balconi, nelle giornate più limpide, è possibile scorgere l’Adriatico. Basta un passo per accedere nel cuore delle Dolomiti, dove ci sono luoghi a me particolarmente cari, i luoghi in cui ritorno. La Val Formin, nei dintorni di Cortina, con il suo sentiero che sale tra le imponenti torri della Croda da Lago, a sinistra, e la spianata che scende dal Monte Formin a destra. Dal piccolo ponte di legno che segna l’ingresso nella valle — che io ho battezzato ponte dell’angelo — si può scorgere in alto, al centro di un’ardita forcella, un angelo con le mani congiunte: questa statua di pietra ti appare solo dal basso. Se sali alla forcella riesci a vedere solo un informe ammasso di rocce. Scendendo dal passo, che divide la Croda da Lago dalla cima Formin, si incontrano i pascoli di Mondeval, dove un cacciatore dell’età della pietra ha riposato per circa 7.000 anni, sepolto con gli oggetti che utilizzava in vita sotto un enorme riparo roccioso. Lui non lo sa, ma è stato proprio il suo ritrovamento a salvare uno degli ultimi luoghi incontaminati di Cortina dallo scempio di un collegamento sciistico che avrebbe portato avanti e indietro orde di colorati e chiassosi omini in tuta da sci. Il suo scheletro è ora custodito nel museo di Selva di Cadore, ma dubito che questo possa fargli piacere. Proseguendo ad est dalla Croda da Lago, dopo il rifugio Palmieri che sorge sulle rive del piccolo laghetto di Federa, si incontra una radura abitata da pini cembri che crescono abbracciando le antiche rocce che movimentano il paesaggio: un luogo magico se si ha l’accortezza di percorrere questi sentieri quando il rifugio è chiuso, e le montagne ritrovano il loro silenzio. L’energia che sprigiona dagli alberi secolari e dalle rocce non può lasciare indifferenti. Un altro luogo in cui ritorno è la Val di Gares, a Canale d’Agordo, lungo uno dei sentieri che si inerpicano ripidi verso l’affascinante mondo dell’Altopiano, così particolare e bello, circondato dalle guglie ardite delle Pale di san Martino. Dino Buzzatti si ispirò proprio a questo altopiano per il deserto dei tartari. non trovi quasi nessuno su questi sentieri, anche in piena estate. la maggior parte della gente preferisce salire all’altopiano dalla parte di San Martino di Castrozza, dove una funivia porta su velocemente e senza sforzo. Ma il fascino dell’Altopiano non sarebbe tale senza il sudore che si lascia lungo i suoi sentieri e tra le sue rocce. Poi c’è il Passo Valles, con l’incredibile contrasto di colori che ti accoglie salendo in auto, nella calda luce di un pomeriggio inoltrato di inizio estate. Qui, le chiare rocce dolomitiche delle Pale di San Martino si incontrano con i neri porfidi quarziferi della catena di Cima Bocche che, assieme ai vicini Lagorai, rappresentano le ultime propaggini di una grande distesa di rilievi generata da una serie di eruzioni di circa 270 milioni di anni fa. Se attendi la notte, al Passo Valles, le stelle sono così luminose che sembra che l’intera volta celeste ti cada addosso. Più vicino a casa c’è la Schiara, con la sua Gusela del Vescovà, il simbolo di Belluno. Lungo il sentiero che porta al rifugio 7° Alpini si incontra, poco prima del Ponte Mariano, una piccola lapide che ricorda Luigi Faoro “Battista”, un giovanissimo partigiano ucciso dai nazisti. Tutte le volte che passo di lì raccolgo fiorellini di bosco e li ripongo sulla lapide; non so chi fosse, né come abbia trovato la morte, ma ciò che importa è che abbia sacrificato la propria vita anche per me. Il minimo che io possa fare è onorarlo. La memoria diventa sempre più labile in questo Paese, così incline a dimenticare gli orrori che i nostri genitori hanno vissuto. Prima di raggiungere il ponte, ritrovo sempre il ricordo di mia madre che era originaria del piccolo paese di Bolzano Bellunese. Mio zio ha murato nella roccia, in un luogo poco visibile, una bottiglia di grappa che lei gli aveva regalato poco tempo prima di morire; quella bottiglia rappresenta un gesto d’amore da parte di un fratello altrimenti molto riservato. E così quel sentiero è diventato per me un percorso della memoria e ogni volta una profonda emozione mi assale; anche perché lungo tutta la salita la possente energia delle acque smeraldo dell’Ardo mi accompagna fin su al rifugio, un rifugio di quelli autentici, di quelli che i gestori conducono fra le mille difficoltà di un luogo raggiungibile solo a piedi, con un paio d’ore di cammino. Questo è un edificio che davvero diventa rifugio per i frequentatori della montagna che si trovano in difficoltà. Una volta su, ci si ritrova al cospetto delle severe pareti della Schiara, con la Gusela sempre più vicina che si può raggiungere lungo una via ferrata e, da lì, salire in cima alla Schiara. Mi trovo spesso davanti a così tanta bellezza da non riuscire a trovare parole per descriverla. Posso solo rimanere in silenzio e riempirmi gli occhi di tanta meraviglia. Eppure, in nessuno di questi posti riesco a cogliere ciò che ho trovato lassù, nel Grande Nord. Ci sono arrivata quasi per caso, per accompagnare in Norvegia il gruppo di scouts di cui faceva parte mio figlio. Ancora prima di partire ero già pentita di aver deciso di andare in un posto tanto freddo. Ne avevo paura. Pensavo alle mille scomodità. Non ero mai stata nemmeno in campeggio! Nella wilderness del Borgefjell, a giornate di cammino dal primo villaggio, avvolta, quasi cullata dal silenzio totale mi sentii subito a casa. Davanti alle rapide di Ovrejohke mi ritrovai a piangere senza motivo. Avevo l’impressione che tutta l’immensità e l’energia che mi circondavano mi fossero entrati dentro. Per la prima volta in vita mia mi sentivo accettata. La natura che mi accoglieva non stava a guardare come fossi vestita, se avessi i capelli in ordine e, soprattutto, se i miei pensieri fossero conformi al sentire comune. Da quella volta ho cominciato con la mia famiglia a frequentare con assiduità la montagna, ritrovando in essa quella serenità e pienezza che tanto avevo cercato nel corso della mia vita. Dunque, perché decisi di mettermi in gioco e partire da sola? Perché decisi di incamminarmi in quei luoghi che presentano tante insidie e sono in grado di metterti in serie difficoltà? Quando arriva il brutto tempo lassù arriva davvero! Occorre stare in guardia, essere preparati, non lasciarsi scoraggiare e prendere le decisioni giuste. Basta una banale ferita, una distorsione, qualche dolore improvviso per metterti nei guai: non c’è possibilità di telefonare, a meno di raggiungere uno dei bivacchi dotati di telefono di emergenza. Se decidi che non ce la fai, o vuoi abbandonare, non hai alternative: ti tocca tornare indietro, oppure marciare in avanti fino alla fine del percorso. E questo significa che se sei a metà strada, hai almeno cinque giorni di cammino per arrivare alla prima casa. Tutto questo in completa solitudine, perché lassù è anche difficile incontrare qualcuno lungo la pista. Di certo, il motivo che mi spinse a partire da sola non sta nella mancanza di potenziali compagni: ho la fortuna di condividere la mia passione con mio marito e tutto il nostro tempo libero lo passiamo assieme tra i monti. La mia decisione non fu motivata neppure da una qualche ambizione. Sono decisamente schiva e riservata. È più facile vedermi in mezzo a quelli che si nascondono piuttosto che nella folla che si mostra. Il motivo molto semplice che mi spinse ad intraprendere questa avventura è che avevo conosciuto il silenzio del Grande Nord, e mi chiedevo cosa avrebbe significato ritrovarsi avvolta da quel silenzio nel più completo isolamento, lontana da qualsiasi distrazione: solo io, il silenzio e la mia anima. Volevo poi imparare a riconoscere le mie capacità. Nella mia vita precedente tendevo ad appoggiarmi agli altri come a stampelle senza le quali non ce l’avrei fatta. Era venuto il momento di crescere, di convincermi che seppure difettassi nel fisico e nella tecnica, sebbene rimanessi sempre dietro agli altri col fiato grosso, sarei potuta giungere da sola comunque alla mia meta; perché, e questo lo scoprii dopo, la nostra forza più grande è nella volontà, non nei muscoli. Ebbene, già da tempo rimuginavo tra me e me sognando di partire un bel giorno, con il mio zaino, e raggiungere uno di quei percorsi che attraversano i territori selvaggi della Lapponia, oltre il Circolo Polare Artico. I sogni sono pericolosi e se non li blocchi sul nascere finiscono per crescere finché non cominciano a vivere di vita propria. Così ti ritrovi un giorno a confessarli ad alta voce e a quel punto non puoi farci più nulla: li devi realizzare, o almeno provarci, altrimenti perché mai sei venuto al mondo? Mio marito cercò timidamente di dissuadermi, ma senza risultati. Sperò che prima della partenza cambiassi idea e accantonassi i miei propositi. Ma non accadde. Partii e vissi una delle esperienze più forti della mia vita. Al mio ritorno, il cuore ricolmo di luce, provai a raccontare ad altri la mia esperienza, ma mi resi conto di non poter comunicare a parole quanto avevo vissuto. Questo mi mise in crisi. Era come soffocare: un boccone ti è andato di traverso e te ne devi liberare per poter respirare di nuovo. Non avevo mai pensato a scrivere un libro. Ma non avevo neppure mai pensato di attraversare da sola i territori selvaggi del Grande Nord. Mi misi a tavolino, un block-notes usato, la penna in mano che all’inizio non voleva saperne di muoversi. Ne conoscevo il motivo: il pudore per i miei sentimenti. Era troppo difficile parlare di me. Sapevo che, se anche fossi riuscita a scrivere qualcosa, non sarebbe stato altro che un asettico resoconto di viaggio e tutto quello che era stato, la paura, la fiducia ritrovata, i pianti di sconforto o di gioia, l’angoscia, la serenità, la fierezza per le mie capacità, tutto sarebbe rimasto nascosto dentro quella penna. E fu per questo che decisi di raccontare del mio viaggio in terza persona, lasciando che fosse Miki a camminare al posto mio. E così la penna cominciò a scorrere tra le mie dita e a raccontare la mia esperienza. A raccontare anche del silenzio e delle mie preghiere di madre. Perché, ovunque noi andiamo, per qualsiasi motivo andiamo, ci portiamo sempre dietro la nostra storia, quello che siamo. E io, soprattutto, sono una madre. Una madre che lassù, immersa nel silenzio della natura e della sua anima, si ritrovò a pregare per suo figlio condividendo lo stesso tremore di tutte quelle madri che hanno paura che i propri figli non riescano a trovare la propria strada, o il coraggio per percorrerla. Quella strada che, sola, può portarli a quella che è la nostra meta ultima: diventare esseri umani. Nella consapevolezza che molti di loro non ce la fanno, sommersi come sono da tutta una serie di falsi bisogni, di messaggi che li bombardano in ogni momento della loro vita, nell’indifferenza di una società che in altri tempi si prendeva la responsabilità di proteggerli, a volte nell’indifferenza delle stesse famiglie, questo dolore portai con me. Ognuno di quei figli poteva essere mio figlio. Tutti loro sono anche figli miei. Durante il cammino rivolsi a Madre Terra — la più grande tra le madri — la mia preghiera per tutti questi figli, e, quando scelsi quello che nella storia raccontata in questo libro avrebbe dovuto rappresentarli tutti, scelsi un nome a caso: Antonio. La donna di cui si parla invece sono io, Mirna. Per mia madre sono sempre stata “Miki”.
Mirna Fornasier
Trichiana, maggio 2010.

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