Hitler e Mussolini dovevano morire nel 1943, durante lo storico “incontro di Feltre”. Il retroscena di un attentato che non ci fu.
Nel luglio del ’43 tutto era pronto per eliminare Hitler e Mussolini. Il bliz avrebbe dovuto compiersi nel corso del cosiddetto “Incontro di Feltre”. Ma un contrordine partito dal Vaticano, in accordo con le forze moderate antifasciste, allarmate da un possibile predominio comunista che ne sarebbe derivato fermò il piano per lasciare agli anglo-americani il compito di liberare l’Italia due anni dopo. Una scelta attendista, dunque, che ricorda quella di Stalin che nell’agosto del ’44, per ragioni politiche di segno opposto (Stalin non voleva dividere gli onori con componenti che non fossero comuniste), lascerà fare a pezzi dai nazisti la capitale polacca pur avendo a disposizione il più grande esercito del mondo dislocato ad appena 30 chilometri. Doveva essere solo l’Armata rossa, infatti, senza nessun’altra resistenza di matrice non comunista a liberare Varsavia da Hitler (la tesi è dello storico Norman Davies, oggi confermata dal dossier inviato dai generali a Stalin, custodito nell’Archivio centrale del Ministero della difesa russo).
L’incontro dei due dittatori
Hitler e Mussolini, nei dieci anni che vanno dal 14 giugno del ’34 al 19 luglio del ’44 si incontrarono diciassette volte. Quello del 19 luglio del 1943 passerà alla storia come “L’incontro di Feltre”, benché Villa Socchieva (dal latino “sub clivo” dalla sua posizione sotto il colle) o Pagani-Gaggia, dimora estiva del senatore del regno Achille Gaggia (che con Volpi e Cini sarà interprete del decollo industriale nel dopoguerra della Sade, poi divenuta Enel), si trovi in realtà a San Fermo una località isolata fuori Belluno ad una ventina di chilometri da Feltre. L’errore, poi omologato dalla storiografia ufficiale, è dovuto probabilmente ad un banale refuso dello stesso Mussolini, che nelle sue memorie lo ricorda appunto come “incontro di Feltre”. Il convegno inizia alle ore 11. Hitler prende la parola nel salone principale della villa, dinanzi ad un Mussolini apatico, presenti il sottosegretario Bastianini, gli ambasciatori Von Mackenzen e Alfieri, il capo di stato maggiore generale Ambrosio, il feldmaresciallo Keitel, il generale Rintelen, il generale Warlimont, il colonnello Montezemolo, Schmidt ed altri del seguito. Un freddo monologo, con un lungo inventario di cose che l’Italia non aveva fatto, o aveva fatto male. Dopo mezz’ora il Duce interviene per tradurre in tedesco il messaggio del bombardamento su Roma. L’ “Operazione Crosspoint” o “Notte di San Lorenzo”, quando 362 bombardieri pesanti B17 e B24 e 300 bombardieri medi (146 B26 e 154 B25), scortati da 268 caccia Lighting colpiscono la capitale alle 11 del mattino ed in sei ondate successive provocano 3 mila vittime. Alle 3 del pomeriggio, si concludono con un nulla di fatto i “Colloqui di Feltre”. E la colonna d’auto riparte con un Mussolini insoddisfatto, nascosto dietro gli occhiali scuri sulla Mercedes scoperta, alla sinistra di Hitler. La mattina seguente, il 20 luglio, Mussolini dalla capitale comunica al generale Ambrosio la sua intenzione di scrivere a Hitler che l’Italia non era più nelle condizioni di proseguire la guerra. Ma era troppo tardi. Il generale gli fa notare che tale decisione andava presa a Villa Gaggia. Dopo qualche giorno, il 25 luglio del ‘43, il Gran Consiglio farà cadere Mussolini. Seguiranno i 90 giorni di Badoglio, l’armistizio dell’8 settembre. E la sconcertante fuga di Re Vittorio Emanuele III sul molo di Ortona a mare (Pescara) dove si accalcavano 250 alti ufficiali pronti a svignarsela.
Il progetto dell’attentatao e il contrordine
Un centinaio di Alpini, reduci di Russia, erano pronti ad eliminare Hitler e Mussolini con un blitz kamikaze. Al momento della presentazione delle armi (che erano rigorosamente scariche), gli Alpini del picchetto d’onore avrebbero lanciato le bombe a mano contro i due dittatori, cercando poi di sfuggire alla reazione delle SS. Di motivi per farlo, quei soldati ne avevano da vendere, come spiegò una ventina d’anni fa Nino Piazza, sergente degli Alpini (atti del “Convegno Alpenvorland 1943-45” – Palazzo Crepadona 21-23 aprile 1983). “Eravamo partiti in 1800 per la Russia e tornammo in 117 – dichiarò Piazza – ai quali si devono aggiungere un centinaio di feriti rimpatriati prima della ritirata. Eravamo alloggiati in una caserma di Feltre, dove l’insofferenza per la disciplina era totale. Si sentiva continuamente gridare Viva Lenin, viva Stalin, morte al Duce. Ma non ci potevano fare niente, perché noi eravamo quelli che la retorica ufficiale definiva gli Eroi della Russia”. Un ambiente dov’era facile, insomma, trovare uomini disposti a tutto pur di eliminare chi li aveva mandati al macello nelle distese russe a 40 gradi sotto zero. Dalla fine del 1942, inoltre, esistevano a Belluno due organizzazioni antifasciste. Il Comitato d’azione antifascista che faceva capo al Partito d’Azione PdA. E la rete del Partito Comunista PC .
“Qualche settimana prima dell’Incontro di Villa Gaggia – spiega oggi il dottor Armando Bettiol – fummo contattati dal maggiore Del Vecchio, comandante degli Alpini reduci di Russia temporaneamente dislocati a Longarone. Che ci affidò il compito di introdurre una cassa di bombe all’interno della villa. La questione fu portata al Comitato regionale veneto del PdA a Padova, presenti Meneghetti del Partito Socialista, Concetto Marchesi del Partito Comunista, Norberto Bobbio PdA e il conte Papafava, del Partito Liberale. Il Comitato c’incaricò di informare Ugo La Malfa, esponente del PdA con il quale ci fu poi un incontro a Milano e successivamente un altro contatto ad Asti, nella villa del maresciallo Badoglio, con una persona da questi delegata. Per verificare l’attendibilità del maggiore Del Vecchio, partecipammo anche ad un incontro in casa dell’onorevole Macrelli a Pesaro, città di provenienza di Del Vecchio”. Poiché i contatti con l’antifascismo bellunese avvennero tramite il comandante Del Vecchio, è logico supporre che dietro vi sia la mano dello Stato maggiore dell’Esercito. Ed infatti, come ha testimoniato Bettiol, una delle riunioni organizzative si tenne proprio nella villa di Badoglio. “Era impensabile del resto – prosegue Bettiol, all’epoca 19enne universitario alla Facoltà di Giurisprudenza di Padova insieme a Tattoni – che un gruppo di giovani potessero progettare da soli l’attentato ai due dittatori”. All’ultimo momento però c’è un cambio di programma. Il picchetto d’onore degli Alpini viene cancellato. E dunque, il blitz sarebbe stato più difficile e dall’esito incerto, perché gli Alpini avrebbero dovuto penetrare dal bosco superandola barriera di fuoco delle mitragliatrici delle SS piazzate nei fossati intorno alla villa. Per questa ragione, ma non solo, l’attentato viene sospeso per ordine delle direzioni nazionali del PCI e del PdA, rappresentate regionalmente da Concetto Marchesi e da Ugo La Malfa. A questo punto possiamo fare due ipotesi. Mancavano pochi giorni alla destituzione di Mussolini, evidentemente qualcosa c’era già nell’aria ed i tedeschi non si fidavano più di nessuno. Hitler decide di attorniarsi solo delle fedelissime SS e dispone che sia soppresso il picchetto d’onore italiano. Del resto, anche i mobili della sala nella quale si svolse la riunione vennero sostituiti con altri controllati dai tedeschi. Eugene Dollmann, colonnello delle SS ed interprete dei principali colloqui di Hitler dal ’33 al ’45, nel suo libro “Roma nazista” avvalora la sindrome della congiura. Sensazione che oramai si era impadronita dei soldati tedeschi: “Raggiunta la villa – scrive Dollmann, che però non era presente all’incontro di Villa Gaggia – il comando della piccola scorta al Führer, non ebbe più alcun dubbio: si trattava di un’imboscata. Tolsero la sicura dalle pistole, armarono i mitra e si disposero intorno alla villa, pronti a difendere la pelle. Ebbene – commenta ancora Dollmann – la scelta di quella località da parte del cerimoniale di Palazzo Chigi, potrebbe essere perdonata qualora risultasse da documenti segreti che intorno a quella remota residenza estiva, nei monti, nelle foreste, lungo i fiumi ed i ruscelli, un audace cervello avesse nascosto truppe fidate, pronte a catturare entrambi i dittatori, facendo così cessare di colpo la guerra su tutti i fronti. Diversamente – prosegue Dollmann – non avrebbero avuto giustificazione tutti gli strapazzi patiti, dal volo fino a Treviso, poi il lungo viaggio in ferrovia, con molto fumo fino a Feltre e le successive ore di auto. Quanto non si sarebbe risparmiato all’Europa ed al mondo, se re Vittorio Emanuele, Acquarone (il duca Pietro Acquarone, ministro della real Casa ndr), e gli attori secondari, da Ambrosio all’ultimo tenente dei carabinieri, avessero anticipato di qualche giorno l’andata in scena del loro Sogno di una notte d’estate” – osserva Dollmann – ipotizzando il blitz. C’è una seconda ipotesi. L’improvviso cambio di programma non è dovuto alla diffidenza di Berlino, che cancella il picchetto armato, ma piuttosto a motivi di opportunità politica maturati a Roma. Il Vaticano aveva buoni motivi per fermare il blitz, perché temeva l’avanzata del Comunismo. E preferisce attendere l’intervento degli anglo-americani, piuttosto che correre il rischio di consegnare il Paese nelle mani dell’antifascismo rosso. Che con l’eliminazione dei due dittatori avrebbe rivendicato l’assoluta paternità dell’azione. ”A farcelo notare fu Ugo La Malfa – precisa Armando Bettiol – ipotizzando che il Vaticano avesse dato l’indicazione di attendere l’intervento degli Alleati, anziché azzardare un sovvertimento interno che conteneva allora troppe incognite”. Le armi per l’attentato erano pronte. C’era una cassa di bombe a mano nascosta in casa di Armando Bettiol, pronta ad essere trasportata all’interno della recinzione di Villa Gaggia.
L’incontro di Villa Gaggia era noto già dal mese di giugno
La conferma di villa Gaggia, quale sede prestabilita dell’incontro, viene dal rinvenimento dell’Ordinanza di servizio della Questura di Belluno datata 24 giugno 1943. Il documento, indirizzato al prefetto, ai funzionari di polizia, ai comandi delle stazioni dei carabinieri e alla milizia volontaria, contiene le direttive per i servizi di sicurezza da porre in atto in previsione dell’incontro tra i due dittatori. Già dai primi di giugno ’43 del resto, era stato rafforzato l’organico della Questura, con l’autorizzazione al prelievo straordinario di olio e benzina. Inoltre erano stati effettuati dei lavori lungo il percorso interessato e nella villa era stato installato l’impianto telefonico. Una serie di preparativi e misure di sicurezza che facevano inequivocabilmente pensare a Villa Gaggia come sede imminente di qualche evento. Tant’è che il maggiore Del Vecchio, comandante degli Alpini, evidentemente venuto a conoscenza della circostanza, contatta Tattoni e Bettiol alcune settimane prima del 19 luglio del ‘43. Il luogo dell’incontro, dunque, era oramai deciso. Rimaneva tutt’al più la data da fissare, come sostiene Fredrick Deakin, nella sua “Storia della Repubblica di Salò”, dove dice che la data fu decisa solo il giorno prima, all’improvviso, da Hitler. Rimane solo il dubbio se il piano dell’attentato fosse nato originariamente solo per eliminare Mussolini e poi, in un secondo tempo, indirizzato a entrambi i dittatori.
Villa Gaggia, del resto, era un “obiettivo strategico” ben noto per le sue frequentazioni eccellenti. Già il 13 agosto del ‘27, infatti, la villa ospita re Fuad d’Egitto, in visita alla centrale idroelettrica, accompagnato dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi di Misurata (fondatore della Sade nel 1905). Il 28 ottobre del ‘34 è la volta del ministro dell’Educazione nazionale Francesco Ercole, recatosi nella vicina frazione di San Fermo (Belluno) per l’inaugurazione della Casa dell’Opera Nazionale del Dopolavoro. E l’anno dopo, l’11 agosto del ’35 tocca a Starace, Segretario generale del Partito fascista, in visita ufficiale a Belluno (nella foto a lato). Episodio che occupa una pagina e mezza di cronaca dell’epoca, senza però fare alcun cenno al passaggio per villa Gaggia. Esisteva, inoltre, un progetto poi abbandonato, di trasformare villa Gaggia in residenza del Duce, in alternativa a Salò. La circostanza, sarebbe avvalorata da alcuni interventi, che l’impresa Monti di Auronzo di Cadore (Belluno) fu chiamata a realizzare in previsione della costruzione di un rifugio antiaereo. Non c’è dubbio che se Hitler e Mussolini fossero stati spazzati via in un sol colpo, la guerra sarebbe cessata. Ma, evidentemente, più delle difficoltà strettamente operative, cui abbiamo accennato e che comunque appaiono secondarie per un manipolo d’uomini fortemente motivati e pronti al sacrificio, a pesare furono le valutazioni politiche di chi nel ’43 lavorava già per il dopo Fascismo e non voleva correre rischi.
Roberto De Nart