“Il maiuscolo dell’avventura”: Vittorino Mason racconta Giuliano De Marchi

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Non so se ci sia un tempo e un luogo per morire, di certo prima o poi si deve lasciare questa terra, diventare altro, forse ritornarvi. Di certo, se c’è un luogo dove un alpinista, un avventuriero possa desiderare di morire, questo non è il letto di casa o peggio di una casa di riposo dimenticato da tutti. Questo pensiero mi basta solo un poco per attenuare il dolore che mi ha afflitto oggi nel venire a conoscenza della morte di un grande amico: Giuliano de Marchi. Solo qualche ora prima di ricevere la brutta notizia stavo scrivendo di lui nel capitolo di un nuovo libro, scrivevo nella speranza di saperlo magari ferito, ma vivo e in attesa dei soccorritori. Un illusione durata l’attimo di qualche minuto. “Ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.” dice uno dei replicanti nel film “Blade Runner”. Anche per Giuliano è giunto questo tempo. Lui che sperimentò cosa siano l’avventura, il pericolo, il rischio, il dolore, la morte, sapeva bene che erano parte integrante della vita. Non immagino il caro Giuliano finito così, tra le morse o le braccia della montagna, a seconda delle prospettive, ma anche se fosse non ci sarebbe niente di male in fondo. Quello era il suo modo di cercare e andare. Non c’è niente di meglio che morire durante il cammino, dove volgevi la tua attenzione, solo, nella misericordia di quel vuoto che si fa immenso come un orizzonte senza traguardi. In un’intervista che gli feci al suo ritorno dalla nord del Mc Kinley, dove si era congelato di nuovo i piedi, alla domanda se ne era valsa la pena rispose: “Nonostante tutto sì. Non ho rimpianti. Non si deve mai avere rimpianti di quello che si è i non si è fatto. Nel 1991 è stata davvero dura perdere le dita. Ora sono come più preparato, so che in una maniera o nell’altra andrà a posto e supererò anche questa prova. L’unico rammarico è che da  adesso in poi dovrò stare più attento a non congelarmi ancora”. Sì, io credo che niente al mondo avrebbe fermato Giuliano dal vivere i propri sogni, per cui in questo, che non vuole essere un necrologio, ma un ricordo di un grande amico, nessun rimpianto.
Grande protagonista dell’alpinismo dolomitico, non si è limitato ad aprire solo vie sulle nostre montagne, ma ha cercato linee di salita in “su”, in “lungo”, e in “sé”, non solo per realizzare i propri sogni avventurosi, ma per cercare l’anima delle cose, la cultura dei popoli e l’esperienza di un vivere diverso dalla quotidianità, a contatto con una natura selvaggia, che per lui è sempre stata come una madre, un grande richiamo per andare. Per quelli che non conoscono, che non possono capire il fuoco, lo spirito che fa muovere gli uomini verso ambienti ostili, estremi e pericolosi, anche questa morte può sembrare assurda, evitabile, incomprensibile. “Iera mejo che el stea in ospedae a curar i maeai” direbbe qualcuno, ma questo non era l’unico scopo della vita di Giuliano e comunque lui si sentiva forse più a casa e a suo agio nei luoghi selvaggi. Sempre durante quella intervista alla domanda se aveva avuto paura dell’Alaska rispose: “No, anzi, mi esalta questo tipo di ambiente. Non c’era nessuno in giro a parte noi e rimanere in completa solitudine, sapendo che devi contare solo sulle tue forze, aggiunge ancora più fascino all’avventura”. Una sfida? gli chiesi “No. La possibilità di potersi ancora muovere in luoghi solitari, lontani dai campi base affollati dell’Himalaya, ambienti in cui è ancora possibile sentirsi dentro una vera Wilderness. Luoghi in cui non si viene distratti da nulla, in cui sperimentare un benessere interiore, una pace altrimenti difficile da ricercare nella quotidianità delle nostre città”.
Non so se Giuliano credesse in un Dio, so però che in più occasioni ha fatto suo l’insegnamento di Cristo. L’ho conosciuto telefonicamente e, senza neppure vederci di persona si è dimostrato amico subito, senza chiedere niente in cambio. Si è dimostrato altruista in più occasioni con me, la mia famiglia ed amici, sempre disinteressatamente, cosa rara in questo mondo di opportunisti e truffatori. Nel 1991 ha salvato la vita a Fausto De Stefani, rinunciando per la terza volta alla cima ormai prossima e al prezzo di rimanere congelato ai piedi e vederseli poi amputare! Non ha mai fatto delle sue imprese e delle sue avventure motivo di vanto, solo cosa propria, esperienza di viaggio.
“Socrate” amavo chiamarlo per il suo aspetto da filosofo greco, per come interpretava la vita, per il suo equilibrio nel non giudicare gli altri, nel non prendere posizione, non perché non ne avesse una, ma perché preferiva tenersi le cose dentro. Fisico statuario scolpito dallo mano di un artista, pelle bronzata, capelli ricci, per lo più bianchi, barba, anch’essa bianca, un uomo affascinante, dallo sguardo fiero ma sempre disponibile.
Giuliano era quel San Martino che si strappa il mantello per darlo al bisognoso, lo faceva senza chiedersi perché, e forse non a caso lavorava dentro un ospedale che porta il nome del santo. Ho conosciuto pochi medici che hanno perseguito l’insegnamento di Ippocrate, uno era lui.
Lo rivedo ancora quando sono andato a trovarlo a casa dopo la scalata della parete nord del Mc Kinley, prima italiana. Compì gli anni lassù. Sessanta! Era con i piedi fasciati per l’ennesima amputazione delle dita, ma era sereno. Nel giardino davanti casa le casette e le mangiatoie per gli uccelli, che lui amava tanto. Aveva pur messo delle stringhe colorate alla finestra affinché questi, non accorgendosi del vetro, non andassero a sbatterci contro.
Appassionato di libri e di cinema, amava i viaggi e l’avventura come si può amare una donna con tutto sé stesso. Di questo suo amore è riuscito a trasmettere geni ai figli: la forza, il coraggio, la caparbietà, la lealtà, che sono propri del rubgy, a uno, la curiosità di viaggiare, di conoscere, studiare,  lavorare per e con i popoli, all’altra.
“I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L’orizzonte dev’essere vuoto e deve staccare il cielo dall’acqua. Ci dev’essere niente intorno e sopra deve pesare l’immenso, allora è viaggio” racconta Erri De Luca dal suo “Il giorno prima della felicità”. Ha ragione; forse davvero si viaggia per sentirsi piccoli, umili, poca cosa di fronte alla grandezza dell’universo. È come ritornare bambini e correre tra le braccia di un padre che poi ti alza, per portarti in alto verso le ali di un piccione che ti attraversa la strada, e pare che per un momento di leggerezza pure tu possa prendere il volo.
In quel vuoto immenso è racchiusa la paura di scomparire, di perdersi nel mare dell’esistenza, abissare come in un silenzio profondo di cui non si è in grado di sostenere la compagnia. È questo il grande viaggio, la prova suprema, l’andare per dissolversi in ogni cosa, sentirsi parte del tutto e non più padrone di un corpo o di qualcosa. Piuttosto diventare, tramutare, cambiare, che rimanere immobile in un vestiario che giorno dopo giorno invecchia e muore con noi. Lanciare uno sguardo verso l’orizzonte, naufragare con un pensiero nel cielo aperto, perdersi tra i passi del giorno, ascoltare l’eco delle proprie sensazioni, rabbrividire di fronte uno scoglio sconosciuto e provare emozione senza domandarsi perché.
Sì, il viaggio apre le porte della percezione, è il viatico di ogni grande avventura che, finisca come finisca, vale la pena di essere vissuta. È per questo che mentre le lettere davanti a me compongono un mosaico e fuori una comunità di grandi barbe bianche veleggia ingrigiendosi nella sera, penso a Giuliano sulle nevi dell’Antelao.
“La cima è quasi sempre il terminale delle tue emozioni in montagna, ma non è tutto. Per me la montagna significa anche l’ambiente che mi circonda, il luogo in cui esprimere la mia fisicità, sentire un benessere interiore, trovare un’armonia, una pace con me stesso e gli altri. Be’, riscoprire, avere la conferma di tutto ciò anche a sessant’anni. Un’esperienza così intensa e impegnativa sotto tutti i punti di vista ti segna in un modo indelebile. Attraversare da nord a sud questo gigante di granito è stata una gioia infinita, ho un entusiasmo profondo, come essere tornato bambino” mi disse un giorno. Di lui voglio conservare il ricordo immaginario del suo volto che, perso tra pensieri e sogni, dal vetro della finestra dell’ospedale, tra un paziente e l’altro, in un momento di pausa, si accosta e osserva, guarda le pareti e i diruppi della Schiàra, si alza sulla Gusèla del Vescovà e da lì proietta uno sguardo ancora più lontano, verso un altro grande viaggio.

Descrizione completa di tutta l’attività alpinistica di Giuliano De Marchi
Nato a Conegliano nel 1947, ma bellunese d’adozione, è medico urologo all’ospedale San Martino di Belluno. Ha fatto parte della Commissione medica centrale del CAI e della Commissione del Ministero della Sanità per lo studio  dei problemi della sanità nelle aree montuose, membro del Soccorso Alpino di Belluno e Accademico del CAI. Al suo attivo oltre 900 salite su Alpi e Dolomiti tra cui 70 vie nuove, invernali e solitarie. Basterebbe questo per dare un senso e una notorietà in ambito nazionale a un alpinista, eppure, il Giuliano a cui piace poco mettersi in mostra, è ancora poco conosciuto. A questo nutrito carnet si deve aggiungere un’attività extraeuropea davvero impressionante senza fine di continuità con spedizioni in ogni parte del mondo: dall’Himalya al Karakorum, all’Alaska, Africa, Ande, Groenlandia.
Nel 1972 è sulle Montagne Rocciose di Canada e Usa (salite su roccia nei gruppi di Banff, Bagaboo, Gran Teton ecc.), nel 1973 Batura Mustagh (Karakorum) cima inviolata di 5800 m, nel 1979 Cordillera Real (Bolivia): Ancohuma 6427 m – via nuova, Huayna Potosi 6100 m – diretta parete nord in solitaria, in Perù sale il Nevado Vilcanota 5500 m per la via diretta e in solitaria. Nel 1980 sfiora la cima dell’Everest (versante nepalese) fermandosi a 8769 m, nel 1982 sale il Monte McKinley 6194 m lungo la West Rib, nel 1983 è al K2 (Karakorum cinese) dove sale lungo la cresta nord (versante cinese) giungendo fino a 8300 metri, sale anche una cima vergine di 6200 metri. Nel 1985 sale lo Shishapangma 8050 m, 1986 il Makalu 8470 m e nel 1988 il Cho Oyo 8200 m. Nel 1991 ritenta l’Everest per la parete nord ma si ferma a 8400 m.
Nel 1994 è di nuovo all’Everest lungo la cresta nord, ma giunge fino a 8650 m. Nel 1997 nella Terra di Baffin (Canada) ha salito 5 cime vergini, 1998 si ripete con 2 nuove vie di 1000 metri (difficoltà di 7°), nel 1999 al Capitan (California) sale la Via Zodiac (5.11-A3+), nel 2000 in Groenlandia realizza l’attraversata con gli sci da Est a Ovest (650Km) e nel 2002 tenta la prima attraversata completa dello Hielo Patagonico Sur da Nord a Sud.
Nel 2004, in occasione del Cinquantesimo della salita al K2, sostituisce Da Polenza portando la squadra in vetta al K2 dal Karakorum pakistano, mentre il suo tentativo si arena a 7400 m. Nel 200.. gli viene assegnato il prestigioso “Pelmo d’oro” riconoscimento per la sua straordinaria attività alpinistica.
Nel 2005 in Iran sale con gli sci il Monte Damavand (5601 m) e nel 2006 in Turchia il Monte Argeus e altre cime sempre con li sci. Nel 2007 va a compiere sessant’anni sul McKinley, a 5000 metri, lungo l’impegnativa West Buttres, realizzando la prima italiana alla parete nord!L’attraversata da nord a sud del McKinley 6194 m, in 17 giorni, 130 km, 5600 metri di dislivello in salita e 4000 in discesa,  con temperature tra i meno 30, 45 gradi. Nel 2008, a pochi mesi di distanza dalla nuova amputazione delle dita dei piedi, è in Yosemite al Capitan dove sale la via “ Tangerine Trip” (A3-A4). Nel 2009 sale l’Aconcagua (6963 m ) per la Parete nord est.

Vittorino Mason *

* alpinista e scrittore

 La scheda

Vittorino Mason è nato a Loreggia nel 1962. Risiede e lavora a Castelfranco Veneto dove svolge anche l’attività di promotore culturale. È l’ideatore della rassegna di diapositive «La voce dei monti» e del premio dedicato alla montagna «Una vetta per la vita». Coordinatore del Gruppo Naturalistico “Le Tracce”, è socio di Mountain Wilderness, fa parte del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) e scrive per riviste specializzate di montagna. Amante dei viaggi cerca sempre di unire la passione per la montagna alla conoscenza delle altre culture e popoli. Dai primi viaggi in bicicletta in Scozia, Irlanda e Bretagna, è passato poi al lento camminare con lo zaino in spalla lungo i sentieri di vari paesi europei ed extraeuropei. Tra le montagne scalate, l’Illiniza Norte 5126 m e il Cotopaxi 5897 m (Spedizione Andinistica-Umanitaria in Ecuador) nel 2002, allo Stok Kangri 6150 m (Ladakh-India) 2003, sul Nevado Pisco 5752 (Cordillera Blanda Perù) 2004, dove ha effettuato l’attraversata dell’Alta Via “Don Bosco”. Ha pubblicato due raccolte di poesie nel 1987 e nel 1995. Nello stesso anno è uscito il libro «Nel gioco dei potenti speranza e libertà». Ha pubblicato poi il libro «Sui sentieri dei portatori himalayani», Piazza Editore, «I racconti del Mugo», «Il profumo del tè alla menta», «La via dei vulcani» e «Camminando sulle montagne viola» per la Nordpress Edizioni. Nel 2008 è uscita la sua guida delle vie normali all’interno del Parco Dolomiti Bellunesi «Sulle tracce di pionieri e camosci per la Versante Sud».